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Everest: il film odiato dagli sherpa

La colpa maggiore del film è quella di essere arrivato nel momento sbagliato, all’indomani di una ennesima tragedia d’alta quota, in cui una slavina uccise 16 persone.

Everest: il film odiato dagli sherpa
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22 Dicembre 2015 - 21.58


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di Piero Cinelli

Scelto per inaugurare il festival di Venezia il film Everest di Baltasar Kormakur, che ricostruisce la tragedia avvenuta il 10 maggio 1996 che uccise cinque alpinisti bloccati in vetta da una tempesta, ha avuto un notevole successo a livello planetario, pur sollevando aspre polemiche tra gli amanti delle montagne e soprattutto tra gli sherpa, che lo considerano un vero e proprio insulto nei confronti della loro comunità. Ma perché un film hollywoodiano interpretato da star del calibro di Jake Gyllenhaal, Josh Brolin, Emily Watson, Keira Knightley, Jason Clarke e John Hawkes che racconta più o meno sommariamente una vicenda di venti anni fa, con il solo difetto forse di assolvere troppo facilmente i responsabili della spedizione che oltretutto sono morti con i loro clienti, viene pubblicamente messo al bando dagli sherpa e per motivi diversi dai puristi delle montagne? Il fatto è che a partire dalla seconda metà degli anni novanta l’approccio alpinistico del monte Everest è radicalmente cambiato, con l’arrivo di alcune agenzie occidentali che hanno trasformato in business la scalata del monte più alto del mondo. Le due spedizioni dei defunti Rob Hall e Scott Fischer, raccontate dal film, ne sono un esempio. Un pessimo esempio per gli sherpa che puntano il dito sulla scarsa evidenza che viene data nel film al ruolo degli sherpa, ignorando perfino il fatto che tra i morti c’erano alcuni di loro.

Ma forse la colpa maggiore del film è quella di essere arrivato nel momento sbagliato, all’indomani di una ennesima tragedia d’alta quota, quella dell’aprile 2014 in cui una slavina uccise 16 persone, 13 delle quali erano degli sherpa. Quando la valanga li ha travolti stavano fissando la linea di funi che accompagna fino a quota 8mila i cosiddetti ’scalatori commerciali’ ovvero le centinaia di alpinisti che ogni anno sfidano la vetta più alta del mondo ad un costo medio che si aggira tra i 50mila ed i 100mila dollari a persona.

L’incidente del 2014 ha fatto esplodere una fortissima ondata di protesta tra gli sherpa che con una decisione unanime hanno bloccato le scalate per tutta la stagione, lasciando al campo base alcune centinaia di scalatori e creando un vero e proprio terremoto tra le agenzie che organizzano le ascensioni in vetta. Non si sale sull’Everest senza gli sherpa, semplicemente perché senza chi fissa le scale e le corde, porta le tende, le coperte, il cibo, la spazzatura e l’ossigeno, non è possibile affrontare una scalata dura come quella, che solo il loro contributo ha reso più facile, forse troppo. La tragedia del 2014 ha rilanciato le rivendicazioni di una popolazione che da sempre ha legato i propri destini con quelli del monte Everest. E che non accetta più di essere considerata figlia di un dio minore. A fronte dei 75mila dollari che riceve ad esempio una delle più famose agenzie, la Himalayan Experience Ltd (Himex) del neozelandese Russell Brice, per portare gli scalatori in vetta – le spedizioni durano mediamente circa due mesi – con tenda riscaldata con tv e internet al campo base, salita in cordata assistita da accompagnatori, fotografi e cineoperatori per immortalare le gesta dei clienti, gli sherpa prendono 3/4 mila dollari a stagione, nonostante i rischi del loro lavoro.

Ma non è più solo una questione di soldi, e la protesta contro il film lo conferma, ma anche di uno status sociale che li ha costretti da sempre in una posizione di inferiorità da bassa manovalanza rispetto ai bianchi coraggiosi e temerari, che rischiano molto meno di loro. Vedi il caso clamoroso del leggendario Edmund Hillary, il primo scalatore della montagna, il cui nome giustamente tutto il mondo ricorda, mentre il nome dello sherpa Tenzing Norgay che lo accompagnò sulla vetta lo conoscono solo in Nepal. Oggi gli sherpa rivendicano dei diritti sulla montagna.

Ma allora di chi è la vetta più alta del pianeta? Del governo nepalese che fa pagare una tassa fissa di 11mila dollari per il solo permesso di scalarla, delle trentotto agenzie occidentali che hanno fatto una fortuna trasformando la scalata della montagna più alta in una vacanza di massa, con code di qualche centinaio di scalatori che attendono il loro turno per il fatidico selfie sulla cima, oppure degli sherpa, gli angeli dell’Everest, che rendono possibili le ascensioni dei circa cinquequecento alpinisti che ogni anno si cimentano nell’ardua impresa?

Troppi sicuramente, ed in continuo aumento nonostante lo spettro tragico del numero delle vittime, che ad oggi secondo un calcolo molto approssimativo, ammontano a circa 900, un terzo dei quali formato dai soliti sherpa. Ma se questi ultimi rivendicano maggiore rispetto, diritti e denaro, anche la montagna, una divinità per i nepalesi e per i tibetani che la chiamano la ‘madre dell’universo’, sembra voler difendere come una autentica dea pagana la propria sacralità, trasformata in una Disneyland d’alta quota.

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