Vacchi: “Niente pose, il mio amico Ermanno Olmi era una persona vera” | Giornale dello Spettacolo
Top

Vacchi: “Niente pose, il mio amico Ermanno Olmi era una persona vera”

Fabio Vacchi, autore delle musiche del “Mestiere delle armi”, di “Centochiodi” e vari documentari, ricorda il regista che amava il cinema, la tavola e gli amici

Vacchi: “Niente pose, il mio amico Ermanno Olmi era una persona vera”
Preroll

admin Modifica articolo

7 Maggio 2018 - 20.22


ATF

«Ermanno Olmi era una persona vera. Non aveva pose. Quel che pensava, faceva. Aveva un pensiero profondo. Era un lirico nelle sue manifestazioni. Ad Asiago dietro casa sua c’era un bosco: lo vidi mentre parlava con uno scoiattolo e quello lo ascoltava». Fabio Vacchi (Bologna 1949) non è solo uno dei compositori più attenti, capaci e profondi di quella che viene definita musica colta: è un artista che va al di là degli schemi e infatti ha lavorato molto anche con l’amico regista appena scomparso. Sua è la musica del “Mestiere delle armi”. Sue, ricorda Vacchi, sono la “coda” di “Cantando dietro i paravanti”, le musiche de “I centochiodi”, a cui vanno aggiunte le composizioni per più documentari: come quello su una mostra di Kounellis alla Fondazione Pomodoro («un documentario bellissimo»), il corto del 2015 “Il pianeta che ci nutre” per l’Expo «fino a “Uno di noi” sul cardinale Martini con musiche di altri e mie».

Che persona era, Olmi?

Per me era un grande caro amico. Aveva l’amicizia come valore supremo, era una persona cordiale. Io non sono credente ma la sua fede è un esempio di coerenza e profondità. Non era una fede dogmatica, dottrinale. Ci ritrovavamo sui valori profondi del cristianesimo che sono il diritto naturale e “ama il prossimo suo”. D’altronde lui amava dirsi cristiano, non cattolico.

Con il “Mestiere delle armi”, del 2001, sul capitano di ventura del primo ‘500 Giovanni de’ Medici detto dalle Bande Nere, il regista raccontò un Rinascimento torbido, di sangue, al di là dell’immagine consueta.

Era un film sul senso di identità, sul dovere. Più che altro è una meditazione sugli uomini e su un certo Rinascimento che assume le sembianze pittoriche della stupenda fotografia di Fabio Olmi. Come ogni grande capolavoro trascende il motivo occasionale.

In che modo decideste di collaborare per “Il mestiere delle armi”?

Ci scherzavamo sempre. Nel momento in cui mi chiamava per “Il mestiere delle armi” io lo chiamavo perché facesse il regista per una opera mia alla Scala: oltre a stimarlo immensamente eravamo molto amici. Ma quando quel pomeriggio lo chiamavo il suo telefono era sempre occupato. Il giorno dopo mi chiamò dicendo che il mio telefono era sempre occupato. Ci eravamo telefonati a vicenda. Anche per un materialista come me è un segno.

Conosceva la musica?

Aveva conoscenze non tecniche ma una vasta cultura di ascolto e una sensibilità straordinaria.

Come lavorava?

Come tutti i veri registi era un osso duro. Quando aveva un’ idea la perseguiva con cordialità. Lavorare con lui per una colonna sonora aveva come modalità il contrario di quello che insegnano nei corsi di musica da film, cioè che fai la musica su materiale montato e cronometri. Con lui accadeva l’opposto: voleva prima la musica e poi ci montava sopra le scene: è il suo segreto per un respiro straordinario tra sincrono e immagini. Un altro aspetto è che non amava la musica descrittiva. Per impedirmi di comporne non mi dava quasi nessuna informazione sul “Mestiere delle armi”, sulla trama, sugli snodi drammaturgici. Una volta mi mentì dicendo che non esisteva una sceneggiatura. Era una menzogna clamorosa, i dialoghi del “Mestiere delle armi” sono quanto di più raffinato si può avere per ricreare un italiano cinquecentesco plausibile. Poiché sono un discreto cuoco, lo invitavo a cena e allora riuscivo a estorcergli informazioni. Era straordinario.

Quali dei suoi film ha amato di più?

Un altro grande capolavoro è “L’albero degli zoccoli”, ma ho amato anche i suoi film di minor cassetta come “La leggenda del santo bevitore”. Penso fosse un grandissimo regista ma era anche un uomo di pensiero, di cultura, di coerenza tra il dire e fare. Quello che pensava faceva, corrispondeva alle idee che esprimeva, cosa oggi rarissima. La grande tragedia della sua scomparsa è che sparisce uno dei possibili modelli da indicare.

Come vi incontraste?

In Sardegna a casa di Claudio Abbado, con il quale mia moglie, musicologa, ha lavorato molto. Olmi venne per la regia di un “Otello” a Berlino diretto da Abbado, ci mettemmo a parlare dei massimi sistemi e cucina e la mattina dopo alle sei eravamo ad acquistare pesce ad Alghero per una tavolata numerosa. È stata un’amicizia nata sui grandi temi e sulla convivialità.

Dovendo descriverlo in poche parole?
Una persona vera. Non aveva pose o ideologie: aveva idee sue, un pensiero chiaro, profondo e ci si atteneva alla lettera.

 

 

 

Native

Articoli correlati