Lucia Calamaro: “Vorrei un teatro che conversi con lo spettatore” | Giornale dello Spettacolo
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Lucia Calamaro: “Vorrei un teatro che conversi con lo spettatore”

Intervista alla drammaturga e regista Lucia Calamaro, più volte vincitrice del Premio Ubu, a Cagliari per “La vita ferma”

Lucia Calamaro: “Vorrei un teatro che conversi con lo spettatore”
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21 Ottobre 2016 - 16.14


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di Margherita Sanna

A Cagliari in questi giorni fino a domenica (alle 21, domenica alle 19) al Teatro Massimo, “La vita ferma”, l’ultimo spettacolo della pluripremiata Lucia Calamaro è un colorato viaggio nelle emozioni umane attraverso l’elaborazione del lutto di una famiglia borghese.

Intenso, feroce, anche dissacrante, questo spettacolo ci restituisce a noi stessi come uno specchio. Siamo lì, con le nostre paure, miserie, le piccinerie quotidiane che ci accomunano tutti, e le grandi e universali domande alle quali prima o poi si arriva. È un teatro che parla del reale e al reale quello di Lucia Calamaro. Non ci sono vie d’uscita. Resta solo la più arcaica possibilità di sublimazione ed elaborazione grazie ad una pièce teatrale di rara bellezza.

Qual è stato il suo primo incontro con il teatro?

Abbastanza scemo e frivolo, al liceo. Io ero nella corale del liceo francese in Uruguay, abbastanza brava, perché ero innamorata del maestro del coro. Un giorno è arrivato il maestro di teatro, e immediatamente mi sono innamorata del maestro di teatro. Fa ridere questa cosa che mi innamoravo delle persone più grandi: se eri maestro mi innamoravo, fa molto “Il Maestro e Margherita”. Ho mollato il coro, mi sono iscritta a sedici anni al gruppo di teatro, finché il teatro non l’ho più mollato. Lì è nata una passione che andava oltre il liceo, perché il teatro non lo facevo solo a scuola ma anche in un gruppo alternativo uruguaiano che si chiamava Teatro 2, due sgangherati gay, una roba folle, però che mi ha formato in una cosa che non vedo tanto qui. È il dire: “senti un po’, fai come vuoi, basta che sei vicino a te stesso andrà bene, non fare finta”. Sono stati due anni – dai sedici ai diciotto- veramente importanti, in cui ho capito parecchie cose. A merenda si mangiava “pane e attore”.

E quando ha iniziato a scrivere?

Molto tardi rispetto a questa esperienza. Prima ho fatto l’attrice, poi ho fatto la regista, poco poco perché mi sono annoiata subito, e dopo un paio di regie ho detto “no, noiosissimo, scriviamo!”. E lì ho trovato che scrivere, mettere in scena -a volte stare anche dentro ma il meno possibile perché sennò non hai la visione dell’insieme- lì, la complessità della combinazione di questi tre elementi continuava ad essere interessante, ogni volta. Era scrivere un mondo, che prima non c’è, e poi prende forma. Questo continua ad essere bello.

Perché questo titolo “La vita ferma”?

La risposta è complessa perché ancora in me non è chiara. So che mi è apparso così il titolo, per varie ragioni. Ferma perché quando ti stalli nel ricordo non c’è particolarmente azione, in qualche modo anche se sto camminando, se mi arriva un ricordo, o se mi stallo in un ricordo, ho la sensazione che quel mio movimento fisico sia annullato. “La vita ferma: sguardi sul dolore del ricordo”, è uno spettacolo che in fin de’ conti che –per quanto poi racconti e viva in sé – ha come oggetto labile, come grande cappello questa dimensione del ricordo, che comunque ti ferma, ti rallenta. Per ricordare devi stare un attimo qua, neanche un attimo indietro.

Lei ha un utilizzo della lingua molto articolato. In fase di scrittura quanto ci lavora sopra, quanto riprende per cambiare il linguaggio che utilizza?

Ti dirò la lingua che arriva qua è la lingua scritta semplificata, perché in qualche modo quando scrivo penso che succeda a tutti, potrei farti anche una teoria generale, quando si scrive è come se parlasse qualcun altro. È proprio una tecnica specifica di accesso ad un altro te che si esprime certo come te, ma diverso. Io quando scrivo, scrivo più complessa di come poi mi metto in scena. Perché? Prima di tutto perché viene così, quest’altra me si esprime in questo modo. E secondo, poi quando tocca arrivare alla scena, all’ascolto si deve capire subito. In teatro non si può tornare indietro come un libro, rileggo questa frase, hai il tempo di leggere lentamente, di rileggere, sottolineare, ritornarci. Nella scrittura mi permetto anche delle complessità naturali in me, un po’ uno ci deve entrare in quel ritmo. Lo spettatore non può star così ad aspettare e pensare a cos’avrà voluto dire. Farmi tornare indietro non esiste. L’ascolto è immediato. Ed io spingo finché posso la complessità della lingua parlata a farla assomigliare il più possibile alla mia lingua scritta, però il limite dell’ascolto è molto forte, dello spettatore – soprattutto su una lunga durata (sono due ore e mezza di ascolto)- non gli posso chiedere più di tanto, già gli chiedo abbastanza.

Ci sono alcune battute in francese e in inglese, una mescolanza linguistica inusuale per il teatro italiano. Come mai questa scelta?

C’è una zona di me che io faccio finta che non esista, ma io sono trilingue. Sono vissuta dodici anni in Uruguay, dieci anni in Francia da piccolina, mio marito è francese, i miei figli sono bilingue, ho lavorato a teatro in Uruguay facendo tutto in spagnolo, l’inglese lo pasticciamo un po’ tutti. Ho tutto un mondo linguistico, senza averlo mai voluto mettere sul piatto, forse nel prossimo spettacolo di più, o forse arriverà uno spettacolo. Mi dico sempre: ma dove fare uno spettacolo proprio tutto mischiato, con tutti questi universi che mi abitano? Io faccio finta di essere italiana, italianissima, ma non è così! Sono una sintesi minimo di tre lingue, quindi di tre immaginari, che poi traduco tutto in italiano, e che credo che in qualche modo questa cosa abbia anche a che fare con lo stile in cui scrivo, che è molto influenzato anche dagli echi dello spagnolo e del francese, che però io ripulisco e spaccio per italianismi o neologismi. Credo che questo trilinguismo mentale mi abbia comunque marcato nell’italiano che parlo.

E si nota anche nel tipo di ironia che porta in scena non precipuamente italiana.

Questa cosa non ce l’ho oggettivata, non ce l’ho chiaro. Per me l’ironia è proprio l’ancora di sopravvivenza di qualunque momento dell’esistenza, è proprio quel piccolo scarto che ti permette di guardare e di dire “oh dio mio!”, fondamentale al dondolio, alla faticosità del vivere. A me piace anche ridere, far sorridere, divertire, nel senso: ti distraggo un attimo di qua, perché poi ti dico questo, ti divergo e poi ti vado al centro. Tu mi segui e poi ti porto lì, e ti faccio anche ridere. In qualche modo un pubblico che ride in sala è anche un segnale di vita per gli attori, perché tre ore con il pubblico zitto zitto pensi “si saranno tutti addormentati!”. Mi fa caldo sentire il pubblico ridere.

Ne “La vita ferma” ritorna la stessa battuta di “Diario del tempo”: “il contrario di supino è bocconi”. Come mai?

(ride) È una battuta che piace tanto all’attore Riccardo Goretti, che aveva visto “Diario del tempo” e allora ha chiesto se per favore potessimo citare ancora quella battuta. E allora ho detto: “Alice (Redini) digliela così è contento”. Non so perché gli piaccia tanto. È un capriccio di Goretti il ritorno di quella battuta.
In scena è tangibile una grande sinergia fra i tre attori, come li ha scelti e in quale ordine?
È un gran gruppo questo, una forte coesione, sembra che lavorino insieme da dieci anni. Devo dire che io vengo dal Sud America dove avevo questa compagnia da ragazzina, a 18 – 20 anni, scalcagnatissima, in cui il teatro era l’attore santo, ore e ore di training notturni, dopo il liceo, dopo l’università, proprio una roba da fondamentalisti, da ayatollah del teatro, ci credevamo puro e duro. Era un clima di grande coesione. Io vengo da quella scuola di pensiero lì, che bisogna stare insieme, bisogna volersi bene, bisogna aiutare l’altro, bisogna essere empatici e simpatici in compagnia. Quello là, lo strano, io non lo tollero. Se non ci stiamo tutti simpatici non possiamo lavorare insieme. Perché vengo da lì, e quindi con gli attori che incrocio cerco di ricreare il più velocemente possibile quel pastone lì, di grande intimità e scioltezza e assoluto rispetto, sennò le cose non vanno bene. Per “La vita ferma” ci stiamo cincischiando da due anni in varie tappe: la prima credo che sia stata Alice Redini (la figlia), quasi in contemporanea con Riccardo Goretti (il padre), con cui c’eravamo incrociati tre anni fa per fare una cosa che poi non è partita, un appuntamento mancato. Goretti io l’avevo visto nel 2008 e già gli avevo detto: io voglio lavorare con te.

Come mai sceglie di lasciare all’interno dello spettacolo i loro nomi di battesimo?

Perché viviamo insieme un anno e mezzo, come ti devo chiamare? Voglio sentire quei nomi, non ci crederei mai se Riccardo Goretti me lo chiamassero Luigi, è un livello mio di incredulità rispetto ai nomi appioppati sulle persone che conosco e non mi funziona proprio. E poi è vero che c’è da parte mia anche un piacere nell’impastare persona e personaggio, le modalità umane dell’attore sono prese in considerazione per i ritmi del suo personaggio, non è che li forzo, li violento, e li porto totalmente altrove, assecondo totalmente la loro natura, così sono e allora ancora di più.

E in effetti in scena è evidente questo aspetto realistico dei personaggi, tanto da percepirsi dentro la casa di Simona e Riccardo, ad osservare i loro discorsi intimi, nonostante la consapevolezza di trovarsi a teatro.

Questa cosa che dici è fondamentale e anche molto perturbante, anche per loro. A Lugano il pubblico parlava con gli attori, diceva: “sì, brava…oh poverina tutte a te”. C’era un ritorno. Non mi era mai successo, il pubblico di Lugano è particolare. Questo fatto che il pubblico volesse parlare, si sentisse praticamente in scena. Dico “è successo qualcosa, nel loro modo di porsi, per quello di cui parla”, non so, è successo qualcosa per cui la gente si sentiva autorizzata a commentare e questo ha a che vedere con un altro luogo del teatro, che è quello che potremmo definire intimità. È come se l’appuntamento che io ho con lo spettatore è intrattenuto da un fatto che è: ok, noi non ci conosciamo, questa è l’occasione per conoscerci, a questo punto svelamento, non è che facciamo finta, facciamo convenevoli. Andiamo subito alle cose fondamentali, anche perché le conversazioni sul nulla a me nella vita mi annoiano terribilmente, i preamboli, i convenevoli, per carità! Una vera conversazione vale oro e sono rare. Quello che io voglio dare allo spettatore è un momento di vera conversazione, come se stessimo veramente parlando, come se loro stessero veramente parlando di cose fondamentali, poi tutto il resto uno ce l’ha intorno. E questo cercare disperatamente di creare un’intimità fra quello che c’è lì e lo spettatore, per me è un obiettivo costante, a volte ci riesco, a volte no.

Quando lei parlava di “poetica del pathos” nella presentazione de La vita ferma, intendeva questo?

È diverso, perché nel pathos c’è la commozione, nell’intimità non necessariamente, c’è giusto questo sentimento empatico. Invece il pathos è abitato anche da un movimento, che poi definire la commozione è difficile. Cos’è questa cosa che ad un certo punto ti sale e non è che piangi proprio ma è tutto un movimento? In questo spettacolo volevo che la gente piangesse, che la gente si commuovesse, perché quando vai a teatro ti deve tornare a succedere qualcosa. Ma non è che ti commuovi per quello che succede lì, ti commuovi perché quello che succede lì ti ricorda quello che è successo a te. Io parlo di me per parlare di te. Non è che sto lì a parlare dei fatti miei, sto lì a cercare di dire “questo che mi è successo son sicuro che tocca anche te, reagisci, sentiti vicino a noi”. Sentiamoci tutti vicini in questo pathos comune, in questa commozione comune in questo caso rispetto ai morti e volevo che si commuovesse e si ripiangesse perché i morti ce li siamo dimenticati. Non so in Sardegna, forse qui meno, però dappertutto, altrove in Italia i morti ce li siamo persi. Io non conosco più nessuno della mia generazione che vada al cimitero. I quarantenni che vanno al cimitero li conti sulla punta delle dita, eppure ce li hanno i morti, a volte qualche zio, fratello, nonno. C’è proprio un rimosso culturale rispetto all’intrattenimento del rapporto col morto, che va intrattenuto, perché con tutto quello che abbiamo da fare, figurati se hai tempo per pensare ai morti tuoi. E del resto quell’insulto potente che c’è in romanaccio “te e li mortacci tuoi” in un momento era gravissimo come insulto, oggi invece ha perso qualsiasi potenza, tocca i miei morti, tocca mia moglie, tocca chi ti pare. C’è questo assoluto menefreghismo generico che un po’ mi dà fastidio. E quindi stiamo lì a reinserire il germe epidermico del legame con quella roba che non vediamo più ma che sta dentro di noi.

Perché ha scelto dei personaggi borghesi?

Sono borghese, è la classe che conosco. Che ti parlo del popolo minuto, del metallurgico, della nobiltà? Non so che dire! Io penso che uno possa parlare a cuor leggero di un habitat che hai a menadito, non potrei fare uno spettacolo sulle scimmie, non sono un’etologa, non ne so niente, sarebbe tutto falso, tutto finto. Io frequento quella zona lì, e quella zona lì la so.

Sta scrivendo qualcos’altro?

Ho già iniziato e stiamo cominciando a provare, il titolo non ce l’ho, neanche te lo racconto, tanto da qui alla fine sicuramente diventerà qualcos’altro.

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