“Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano.Il popolo insomma. Quel popolo che fino a ieri t’aveva scansato, lasciato solo come un cane scomodo, ignorandoti quando dicevi non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge per Dio, non riparatevi sotto l’ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno È qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà È un dovere, prima che un diritto È un dovere. Ora ti ascoltavano, ora che eri morto”. Questa citazione tratta da Un uomo di Oriana Fallaci, il libro che racconta la storia del ribelle Alekos Panagulis, riecheggia nell’aria quando Mario Perrotta conclude il suo “Un bes” con il funerale di Antonio Ligabue, il pittore naif vissuto in solitudine e morto fra gli onori di chi quand’era in vita lo scherniva, lo umiliava, lo isolava.
“Un bes” è lo spettacolo di e con Mario Perrotta andato in scena al Minimax di Cagliari sabato 23 e domenica 24 aprile, Premio della critica Ubu 2015. È il primo della sua trilogia, del suo “Progetto Ligabue” che scandaglia e rielabora la vita del pittore. Poetico, struggente, doloroso, “Un bes” cattura l’attenzione fin dal primo istante, fin dal primo vagare fra la platea di Perrotta chiedendo “un bes” ai presenti. Il pittore che chiede “un bes”, citazione di un episodio realmente accaduto e mostrato nel documentario di Raffaele Andreassi del 1962, che ci mostra senza filtro alcuno la solitudine, la follia, la vita ai margini di un uomo che aveva il dono dell’arte. Mario Perrotta è solo in scena, eppure con l’ausilio di soli tre pannelli di fogli bianchi sui quali disegna e disegna bene con il carboncino, riempie in maniera suggestiva lo spazio scenico. La storia struggente di questo pittore è ritratta senza patetismo, ma restando intatta la drammaticità, e gettando luce sulla vicenda di un artista che per chi non appartiene alla generazione che ha potuto apprezzare lo sceneggiato rai del 1977, scritto da Cesare Zavattini, non conosce o ne sa solo qualche brandello d’informazione. Mario Perrotta compie un ottimo lavoro portando in scena con ritmo ed eleganza l’artista e l’uomo.
Il secondo – e ultimo – appuntamento di questa trilogia andrà in scena il 29 e il 30 aprile alle 21 presso il Teatro Massimo di Cagliari, si chiamerà Pitur. Verrà rappresentato il rapporto tra Antonio Ligabue e i suoi luoghi: la Svizzera dove nacque e visse sino ai 18 anni e il territorio di Gualtieri sulle rive del Po dove produsse gran parte delle sue opere. Perrotta scandaglia la vita e l’opera di Ligabue perché “Indagare Ligabue significa indagare il rapporto di una comunità con lo “scemo del paese”, da tutti temuto e tenuto a margine, ma significa anche accettare lo spostamento che provoca una nuova visione delle cose, una visione “folle”, che mette a rischio gli equilibri di chi osserva, costringendolo a porsi la classica domanda: chi è il pazzo?”. Una domanda che tutti prima o poi dovremmo porci.