Gabriele Vacis presenta ‘La parola padre’ | Giornale dello Spettacolo
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Gabriele Vacis presenta ‘La parola padre’

Lo spettacolo è in scena a Milano da oggi, 18 marzo, fino a domenica 22 marzo 2015 al Teatro dell'Arte.

Gabriele Vacis presenta ‘La parola padre’
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18 Marzo 2015 - 16.58


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di Chiara D’Ambros

Gabriele Vacis, chiamato nelle fasi finali dei laboratori teatrali che teatro Koreja di Lecce ha portato negli anni scorsi in diversi paesi dell’est Europa, ha sviluppato non solo un saggio ma a partire da esso uno spettacolo. In questa operazione conferma la sua spiccata capacità di vedere e saper ascoltare l’umano nel e con il suo contesto in cui si trova e che partecipa a farlo essere quello che è nel momento presente. Vacis sembra riuscire a percepire la necessità e la possibilità delle storie di prendere una forma che può essere condivisa. Da questo nasce questo spettacolo che affonda le radici nei racconti di 6 ragazze. Viene da dire che ancora una volta, “il teatro di Vacis” nasce dal vero, parte dall’esistente, dal concreto, sia per quanto riguarda gli spazi, le esperienze, gli oggetti, i ricordi, i sentimenti quotidiani. Questo si trasfigura in narrazioni che oggi, a differenza del suo teatro di ieri, non sono più canoniche e consequenziali ma si slanciano verso una nuova ricerca formale, in cui si riflette la frammentazione dell’esperienza che ognuno di noi vive ogni giorno. Si può dire forse che è un teatro “ecologico” dove tutto quello che esiste viene usato, riutilizzato, valorizzato per quello che è diventato dalle storie agli oggetti di scena, come racconta Vacis stesso in questa intervista. Si parte dalla vita reale, dal concreto ma per trasfigurarla, giocare con le metafore come solo il teatro consente, esplorare le profondità e i mutamenti dei sentimenti umani nell’oggi dove spesso padre e figlia vivono lontano ma sono più vicini di un tempo quando abitavano sotto lo stesso tetto, dove tutti non facciamo che fare e disfare muri.

Questo nuovo spettacolo nato dagli incontri promossi da Koreja come si è svolto il progetto?

Io sono entrato in scena ad un certo punto perché koreja cioè Salvatore Tramacere, Franco Ungaro, Silvia Ricciardelli…loro hanno fatto laboratori in giro per l’Europa dell’Est, ossia in Polonia, in Bulgaria e hanno raccolto una serie di attori e poi mi hanno chiesto di fare il saggio finale. Io ho visto tutti questi ragazzi che avevano raccolto e alla fine ho detto “mi piacerebbe andare avanti col lavoro, fare una cosa un po’ più sostenuta di un saggio”. Ma a quel punto mi interessava lavorare solo con le tre ragazze, una polacca, una bulgara e una macedone cui si sono aggiunte 3 ragazze italiane ed è venuto fuori questo lavoro. L’idea era di un laboratorio ma poi è diventata una cosa che ha iniziato a girare fino ad arrivare ora a Milano.

Cosa ti ha fatto nascere il desiderio di andare oltre?

Le storie che mi raccontavano queste ragazze. Loro, queste dell’est – perché le italiana sono arrivate dopo – come riflessione est e sud, perché le altre tre ragazze sono del sud. Le ragazze dell’est, sono nate tutte e tre comuniste, è incredibile perché loro hanno qualche anno più di mia figlia e sono nate qualche anno prima della caduta del muro di Berlino queste ragazze e quindi mi interessava l’idea che la loro infanzia è stata in questo ambiente, in questo mondo che si stava trasformando velocissimamente ma nonostante questo, hanno memoria di quando il mondo era ancora un altro mondo, ancora dietro la cortina di ferro. Questo ambiente le ha segnate, marchiate in un modo molto diverso rispetto alle ragazze loro coetanee che sono cresciute in Italia. Ho pensato che queste tre ragazze vengono da tre paesi che sono in qualche modo europei anche se di recente acquisizioni o in procinto di esserlo però questa è l’Europa, è la realtà con cui dobbiamo imparare a confrontarci.

Perché solo ragazze? Perché immagino durante i laboratori di Koreja ci siano stati anche ragazzi venivano da paesi oltre cortina.

Si però le ragazze erano più brave. Più forti nell’impatto comunicativo. Poi io venivo da un’esperienza a Gerusalemme in cui ho fondato una scuola di teatro a Gerusalemme est con ragazzi palestinesi, e lì siamo partiti con ragazzi e ragazze ma siamo arrivati tutti ragazzi perché le ragazze man mano hanno dato forfeit, ed erano ragazze straordinarie, però le ragazze palestinesi quando fanno un corso di teatro dove si divertono e magari fanno anche un saggetto finale va bene ma quando il discordo inizia a diventare un po’ serio e rischia di diventare professione, le famiglie , la società non hanno più tanta disponibilità, non sono più così tolleranti e quindi a quel punto le ragazze le avevamo perse tutte ed eravamo rimasti con soli ragazzi e allora ho detto: “Qui facciamo la rivincita: tutte ragazze”.

Però è ugualmente presente, addirittura centrale la figura maschile perché si parla del padre.

Si è presente per assenza, nel senso che è un’assenza onnipresente nel senso che oggi c’è una velocità di mobilità da parte dei giovani, in questa Europa sono possibili spostamenti e una mobilità che prima era sconosciuta. Soprattutto le ragazze vivevano in famiglia, stavano a lungo con i genitori finché si sposavano e venivano in qualche modo affidate a qualcun altro, mentre adesso fortunatamente sono più libere, vivono da sole, se ne vanno per i fatti loro, vanno per il mondo, parlano molte lingue tra cui questo inglese approssimativo che è questo “globish” che parliamo tutti e nessuno sa cosa dice l’altro in sostanza. Questa nuova realtà mi interessa molto, questa nuova realtà in cui le ragazze hanno a disposizione delle nuove libertà. Quando io ero ragazzo e avevo la loro età, noi maschi avevamo molta più libertà, possibilità di muoverci. Le ragazze erano molto più controllate, molto più tenute d’occhio. Ora sono molte più mobili, viaggiano, e in questi spostamenti si allontanano dal padre, dalla casa del padre. Mia figlia quando aveva 19 anni è partita per l’Australia, poi ora vive a Parigi quindi ci vediamo molto meno di quando era piccola e questo da una parte mi manca, credo che anche a lei manchi ma questo permette una comunicazione forse più essenziale, ma più profonda. Credo che sia un’esperienza condivisa perché viene fuori dai racconti di queste ragazze. Certe difficoltà, certe conflittualità si stemperano della lontananza e vengono fuori altri sentimenti. Lo spettacolo parla di questo.

Le madri?

Per una volta le abbiamo lasciate da parte. Le madri sono sempre molto presenti nella vita delle ragazze, specie quando sono in un’altra nazione, devono costruirsi il loro futuro non più a casa ma nel mondo. Questa lontananza fisica le avvicina moltissimo alle madri, quindi per una volta le abbiamo messe un po’ tra parentesi. Nello spettacolo compaiono pochissimo le madri, anche perché c’ero io lì come loro interlocutore e loro hanno l’età di mia figlia quindi è stata più una resa dei conti.

Cosa manca loro di più del padre?

Non credo una mancanza di autorità, di riferimento. Paradossalmente ti dico una cosa che forse mancava prima invece, che era una sorta di guida, una capacità di indirizzare, di consigliare, il consiglio che è una cosa che adesso hanno e prima invece non avevano. La figura paterno presente e autoritaria paradossalmente era meno capace di consiglio. La figura paterna lontana, non assente, secondo me è più capace di consiglio. Questo ci permette di individuare una carenza precedente, cioè che prima la madre era l’unica referente per il consiglio. Ovviamente stiamo parlando di storie, sono discorsi che non hanno alcuna valenza sociologica o nessuna possibilità di essere generalizzati. Ma se posso dirti una sensazione che ho dai loro racconti, dall’averle ascoltate a lungo perché io da un po’ faccio i miei spettacoli a seguito di lunghi colloqui che io riprendo con la telecamera e che poi rivedo insieme a loro e poi da lì viene fuori il testo, i loro racconti diventano short story, piccole storie che però hanno alle spalle lunghe ore di conversazione, di ascolto.

Parlavi prima della lingua, come si sono incontrate con questo “globalish” e con la lingua del corpo?

Quando hai questa difficoltà per cui per nessuno l’inglese è lingua madre, quindi hai bisogno di approfondire questi lunghi colloqui, bisognava sempre passare per l’inglese perché nessuna di loro parla italiano anche se stando qui hanno iniziato un po’ ad impararlo. Ma quando era il momento di dire delle cose importanti, improvvisamente iniziavano a parlare Bulgaro, Polacco, Macedone. Poi il macedone e il bulgaro sono vicini quindi a volte l’una poteva tradurre l’altra ma benché si assomiglino il macedone non sono perfettamente comprensibili l’uno all’altro quindi c’era continuamente questa necessità di spiegarsi, di parlarsi in profondità , dicendo cose precise, ma avendo una difficoltà proprio linguistica per cui il corpo diventava sintesi, diventava l’unica possibilità. È un po’ come quando sei in un paese straniero e prima di capire quello che dicono ci vuole un tempo e qui è accaduto così. La lingua comune che abbiamo trovato è una lingua fisica, sono azioni che poi nello spettacolo diventano teatro.

Oltre al corpo ci sono dei colori, degli oggetti significativi durante e per la narrazione?

Si, ci sono dei muri che vengono continuamente abbattuti e ricostruiti. Perché i muri tutti diciamo che vogliamo abbatterli ma poi tutti partecipiamo alla loro ricostruzione. La nostra vita è fatta di un continuo abbattere e ricostruire muri. Questo muro è costruito prevalentemente da oggetti che avevamo costantemente mentre lavoravamo e che sono diventati familiari, perché come sai a Lecce fa molto caldo, quindi usavamo moltissima acqua dentro questi boccioni che rimanevano lì vuoti e un giorno ci siamo accorti che questi boccioni vuoti erano un po’ parte della nostra vita in modo profondo, li incontriamo ormai dappertutto, nei luoghi di lavoro, negli aeroporti, nelle stazioni, negli uffici, ovunque. Noi siamo fatti d’acqua, il nostro corpo è fatto prevalentemente d’acqua. Quindi c’erano questi boccioni che si riversavano in noi contribuivano a darci energia e poi rimanevano lì vuoti di plastica inutilizzati e noi anche li odiavamo un po’ perché la plastica poi non ci piace quando non ci serve più è materiale di scarto. Allora abbiamo voluto raccogliere questi materiali di scarto e farne un uso creativo e sono diventati l’oggetto principale del lavoro, dello spettacolo. Sono lì. Diventano muro, diventano luce, diventano città, diventano la scenografia dello spettacolo.

Nella presentazione si legge che avete cercato delle “scintille di senso”. Le avete trovate tra i vari mondi, quello di oggi, quello di ieri qui nel sud Italia, quello dell’est ieri e oggi?

Sono proprio sentimenti profondi per esempio la ragazza macedone mi ha raccontato che quando c’era Tito, Stalin era il piccolo padre, c’era questa connotazione paterna dei dittatori dei paesi comunisti. E anche Tito aveva questo atteggiamento paterno noi confronti della popolazione. E lei racconta con nostalgia che quando era piccola lei poteva essere amica della sua amica che era serba perché la Macedonia è appunto una macedonia di popoli appunto. Quando c’era Tito, riusciva a tenere insieme tutto questo. Ora, non c’è una nostalgia per la dittatura comunista ovviamente, però in ogni tempo ci sono sentimenti complessi che convivono, che scattano, si illuminano a vicenda, è complesso, così come la ragazza polacca racconta che lei fa collezione di oggetti del comunismo che sono diventati oggetti di culto. Come per noi le anticaglie sono le figurine di quando eravamo bambini, le figurine della mira lanza, quelle dei calciatori, queste erano i nostri oggetti di culto. Tra i polacchi c’è questo feticismo collezionistico che consiste nel collezionare oggetti quotidiani che erano comuni nell’epoca comunista, prima quindi della caduta del muro di Berlino. Tutto questo per noi è inimmaginabile e fa scattare proprio una comprensione diversa. Alla fine la relazione, i sentimenti tra le ragazze italiane in scena e quelle dell’est si fondono e scattano da questi ricordi che sono diversi ma sono confrontabili. Nel momento in cui tu cominci a parlare con una persona e questa ti racconta di oggetti della sua infanzia che sono completamente diversi dai tuoi, però anche lei ha avuto i suoi… il fatto di raccontarseli crea amicizia.

C’è una narrazione da parte delle ragazze o interpretano un personaggio?

Ultimamente devo dire che ho un po’ di insofferenza rispetto alla narrazione consequenziale che mi presenta uno sviluppo, un rapporto di azione e reazione, di causa ed effetto, dopo averci lavorato tanto non ho più tanta voglia di ricostruirla, perché c’è stato un periodo in cui con la mia generazione si è iniziato a lavorare in un campo in cui si erano distrutte tutte le relazioni, allora noi piano piano le abbiamo ricostruite, la mia generazione ha fatto questo lavoro di ricostruzione però ora che lo abbiamo fatto mi permetto di ricominciare a spezzare per cui loro non sono dei personaggi. Tu puoi trovare dei fili di racconto ma quello che mi interessava era proprio annegare tutto questo in posti che sono vari. Io oggi ho passato in treno 4 ore, ho passato del tempo in stazione, nella metro, e questa è la mia quotidianità ed è la quotidianità di tutti, l’autostrada, gli autogrill, gli aeroporti, sono tutti luoghi in cui passiamo tanto tempo della vita, e in cui costruiamo gran parte delle nostre storie ma la narrazione che ne deriva è una narrazione frammentata, ma non è senza senso, non è che ti fa perdere il senso, ti fa cercare un altro senso. Questo è quello di cui mi sto occupando, quindi, sono piccole storie che non fanno riferimento a personaggi precisi, specifici. Sono staccate tra loro ma sono piccoli segni di collegamento. Questo mi interessa molto.

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