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I Vicini, ci fanno paura?

Inizia oggi, 4 febbraio 2015, la tournée de I Vicini, il nuovo spettacolo di Fausto Paravidino, che ha scritto il testo e curato la regia.

I Vicini, ci fanno paura?
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4 Febbraio 2015 - 17.19


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di Chiara D’Ambros

Incontrato a poche ore dalla prima a Milano, Paravidino ha raccontato questo nuovo lavoro che ruota attorno al tema della paura, temiamo ciò che non conosciamo. La paura è parte di noi, un suo antidoto? “Se la società fosse un pochino più robusta, noi saremmo meno terrorizzati”, ha detto l’affermato e riconosciuto drammaturgo e teatrante, in Italia e all’estero, che poi ha raccontato con la sua lucidità e raffinatezza tagliente delle sue nuove sfide e di cosa lo intriga delle possibilità del meccanismo teatrale. Ha parlato del progetti iniziati al Teatro Valle, quale ora la direzione? Non ha celato, infine, la sua delusione e il suo rammarico per lo stato disastroso in cui versa il teatro italiano.

Un nuovo testo che parla di relazione, di un microcosmo in cui però si inserisce il macrocosmo…

È esattamente questo, provo a fare proprio così, è una storia che parla di vicini e lontani. È una storia sul “come mai le persone fanno la guerra” ma, invece di vederlo nell’universo mondo parlando di flussi migratori, di scontri di civiltà, eccetera, lo vediamo attraverso dei vicini che hanno paura dei vicini del pianerottolo. Rifacendomi anche a quella che è la tradizione americana perché tutti hanno i vicini ma sono gli americani che hanno i vicini che si fanno la guerra. È una storia di una coppia che sa stanno per arrivare dei vicini, lei e molto ben disposta di vederli mentre lui è terrorizzato, ha una paura completamente irrazionale che lo travolge ma poi si accorge di essersi sbagliato. Si pente di aver avuto paura dei vicini e di aver reso invivibile la vita della sua compagna, per cui diventa molto amico loro, non vede l’ora che arrivino in casa, dice che sono delle persone meravigliose, fino a che diventano una parte importante della loro vita, fino a che… diventano dei nemici pericolosissimi, con i quali combattere. C’è inoltre un fantasma che si aggira da quelle parti, perché questa storia è anche una storia horror. Il fantasma è una vicina che abitava lì prima. Si parla quindi di un’altra zona che ci fa paura, un essere altro che è altro da noi che è quello che ci fa paura. Ci fa paura tutto quello che non conosciamo e tutto quello che è fuori di noi, quindi ci fa paura il mondo dei morti, tutto quello che sta dietro a quella porta, compreso il mondo dei vicini.

Da cosa nasce questa urgenza di trattare e parlare di paura?

Non saprei dire perché. Perché mi piace come genere, perché mi è sempre piaciuto. Parlare di paura vuol dire fare paura, e mi piace l’idea di fare paura a teatro. Mi piaceva l’idea di indagare proprio questo “come si può far paura a teatro?”, noi siamo molto abituati a farci fare paura dal cinema e dalla letteratura, molto meno dal teatro, anche se esiste una piccola tradizione teatrale di paura ma con la quale in Italia non abbiamo molta confidenza.

Nel parlare, evochi molte luci e ombre dell’animo umano, si traducono anche scenicamente? E come entrano nella scrittura?

Visto che abbiamo paura di quello che non conosciamo, di quello che non sappiamo cosa sia risulta che la vera grande paura è la paura della paura. Anche nella tortura si fa leva su questo; infatti grande parte della tortura si basa sulla minaccia della tortura più che sulla tortura stessa, abbiamo paura di quello che non sappiamo. Quindi per costruire questa storia sono stato attento nella prima parte, a mettermi in una zona che non conoscevo, di non sapere, cercando di spiazzarmi da solo, di spiazzare le mie stesse aspettative, essendo in fondo io il primo spettatore di quello che scrivo. Poi, invece, nella seconda parte, ho cercato di avere dei personaggi che fanno di tutto per far tornare i conti ma cercando di non far tornare i conti, cercando di non infastidire il pubblico, in modo che non arrivi a dire “non si capisce”, ma nemmeno a sciogliere tutti gli snodi dell’intreccio come in un giallo. Ho cercato una soluzione di tipo poetico, di trovare una conclusione della storia che non sia l’approdo ad una zona di tranquillità, dove tornano tutti i conti e si dice “ah era teatro, la storia era costruita così e così”. Ho cercato di mantenere aperte delle domande e quindi di mantenere aperte le zone che fanno paura. Dal punto di vista tecnico, visto che abbiamo a che fare con attori che sono esseri umani, quello che metto in scena è semplicemente un appartamento molto bianco con una porta e una finestra. Si sentono molto spesso dei rumori che vengono da fuori e gli attori essendo esseri umani come il pubblico cercano di capire cosa succede. Loro hanno paura di quello che potrebbe esserci dietro, il pubblico si diverte perché gli attori sono più fifoni di loro. La suspense è la paura di quello che non sappiamo, quindi si ha paura di cosa di trova dietro la porta: “Quando si aprirà cosa troveremo?” Questo ci elettrizza, e dietro la porta ogni tanto c’è qualcosa di spaventoso, ogni tanto c’è qualcosa di per niente spaventoso, ogni tanto non c’è proprio niente.

Da questa finestra sembrano entrare dinamiche drammaturgiche molto pinteriane …

Si qui molto. Nel senso che l’immaginazione dei personaggi stessi produce una realtà alternativa alla realtà, che però è altrettanto reale. I personaggi ricordando, si costruiscono per biografie alternative che non combaciano tra di loro. C’è in gioco di doppi nella vicenda e anche nei personaggi, tra i quali c’è un gioco di specchi, i vicini sono simmetrici ai protagonisti, la loro metà oscura volendo. Nello svolgersi della vicenda i conti non tornano ai personaggi soprattutto per quanto riguarda la memoria breve “mi avevi detto così”, “no…” Nel momento in cui una persona mi dice di aver detto una cosa che sono sicuro non mi abbia detto a livello molto basico sta mentendo, se invece non sta mentendo sta succedendo qualcosa di strano, o non era lei, o qualcuno parlava per lei, si innesca un meccanismo teatrale, in cui un personaggio drammatizza il fatto che i conti non tornano mentre un personaggio sdrammatizza e quindi significa che ci sono due realtà che vivono nello stesso momento. Una realtà che è la stessa del pubblico e un’altra che non si sa se è il paranormale o una realtà che semplicemente non siamo ancora in grado di descrivere, ma è qualcosa che noi non conosciamo e in quanto tale ci turba.

La presenza del macro della dimensione dei grandi temi come la guerra, la violenza nella tua scrittura come entra e dialoga con il micro.

A volte, certo, parlo più esplicitamente del macro, come nel caso di Genova 01 o del Macello di Giobbe che è l’ultima cosa che ho scritto per il Teatro Valle. A volte mi occupo del macro in maniera molto diretta, molto dritta, senza usare il palcoscenico come luogo metaforico, senza usare i personaggi come metafore dell’umanità, mentre a volte costruisco un gioco teatrale che sia metafora di un gioco reale e questo mi capita più spesso come in Noccioline, o in questo ultimo, I vicini.

Ora parlavi dell’ultimo tuo progetto con il Valle, sta procedendo?

Si piano piano, in varie tappe. Il Macello di Giobbe è diventato uno spettacolo, è andato in scena a Bruxelles siamo molto contenti, basta farlo vedere, e gira, quindi basta che qualcuno abbia voglia di comprare questo spettacolo per farlo vedere anche agli italiani e non solo ai belgi o ai francesi, che lo comprano. Ora vediamo se si riesce a portare avanti il progetto iniziato al Teatro Valle, ora con il teatro di Roma, essendo il Valle non più come prima. Sono percorsi che continuano perché c’è una comunità di persone che scrive insieme, che studia, e anche con la scomodità di non avere più un bellissimo teatro stiamo cercando di continuare.

Accennavi ora al mercato italiano, al fatto che è più chiuso o forse sordo a nuove proposte…

Il marcato italiano fa schifo perché è impuro, è un miscuglio decisamente scorretto di pubblico e privato. È una specie di strana concorrenza impari tra forze impari dove in realtà non dovrebbe essere così. C’è il teatro sovvenzionato, che in Italia ha un’impostazione praticamente feudale, di meriti acquisiti e territori mantenuti per cui in linea di massima in tutto questo l’arte non c’entra niente. E in ordine di apparizione l’ultimo guaio sono le leggi che sono tutte di una complicazione inaudita, in particolare quest’ultima. Non si può pensare di creare un meccanismo virtuoso con una legge, c’è tutto un meccanismo radicato nel teatro italiano che genera il cattivo gusto al potere. E nel poco vince il peggio. E il nostro è un mercato così povero dal punto di vista economico che sull’osso c’è proprio poca polpa, il più prepotente se la mangia e gli altri muoiono.
E poi c’è lo spettatore teatrale che non riesco a capire chi è, da dove vengono i 20 che vengono in un teatro umido… faccio fatica di immedesimarsi in questo cittadino italiano che sfida i mezzi, esce, paga un biglietto, molto spesso per vedere qualcosa di molto brutto, la percentuale di rischio di prendere una cantonata non ha eguali. Difficilmente capita al cinema per esempio, ci sono per esempio molti film stupidi ma difficilmente al cinema ci si annoia quanto ci si può annoiare a teatro… bisognerebbe aiutarli un po’ più onestamente gli spettatori teatrali, trattarli con più rispetto.

Per chiudere tornando all’inizio, al tema della paura… dal tuo punto di vista c’è un antidoto alla paura?

Quello che ci fa paura è l’ignoto quindi conoscere può far venir meno la paura. Ma non sempre si può conoscere tutto allora quando si ha paura ci si deve far coraggio e come ci si fa coraggio? Tenendosi per manina, due persone è difficile che abbiano tanta paura come una persona, quindi se la società fosse un pochino più robusta, noi saremmo meno terrorizzati da varie cose invece il turbo capitalismo decide di metterci tutti l’uno contro l’altro , punta sulla smania di essere individui, di dover farcela da soli, che un po’ è culturale, un po’ è data dal mercato e finisce che ci si trova da soli e soli è più facile trovarsi nel male che nel bene.

Chissà forse è anche il motivo per cui i 20 spettatori vengono a teatro…

Certo che vengono per quello! Noi narcisisti non capiamo che vengono per incontrarsi tra di loro molto spesso e infatti una volta i teatri erano costruiti a ferro di cavallo, infatti tossiscono perché hanno bisogno di comunicare anche tra loro.

Il teatro è ancora una possibilità di incontrare l’altro, di uscire dal mondo virtuale da cui siamo spesso rapiti, e anche se il vicino più fare paura se lo incontro chissà magari la paura mi passa. O forse no… forse lo si può scoprire ne i Vicini di Fausto Paravidino, che oltre ad aver scritto il testo e curato la regia è in scena assieme a Iris Fusetti, Davide Lorino, Monica Samassa e Sara Putignano. Scene Laura Benzi, costumi Laura Cardini, luci Lorenzo Carlucci, musiche di Enrico Melozzi, produzione Teatro Stabile di Bolzano. In scena al Teatro Elfo Puccini a Milano fino al 14 febbraio 2015.
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