Corrado Beldì: “Covid19, serve una cura da cavallo per cultura e spettacolo” | Giornale dello Spettacolo
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Corrado Beldì: “Covid19, serve una cura da cavallo per cultura e spettacolo”

Il presidente dell’associazione di 60 festival “I-Jazz”: artisti e altre figure professionali senza più introiti. E come vicepresidente di Confindustria in Emilia Romagna rievoca l’utopia di Olivetti

Corrado Beldì: “Covid19, serve una cura da cavallo per cultura e spettacolo”
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1 Aprile 2020 - 15.03


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di Marco Buttafuoco

Quale sia oggi la situazione dell’offerta culturale in Italia, è purtroppo noto, almeno nel suo insieme. Eventi sospesi o annullati, presentazioni di libri cancellate, operatori che fronteggiano una crisi che si fa giorno per giorno più pesante. Qui tenteremo di focalizzare l’interesse sul mondo del jazz. Corrado Beldì è il direttore artistico di NovaraJazz, fra i festival più prestigiosi del cartellone italiano, ed è presidente di I-Jazz l’associazione nazionale che raggruppa oltre 60 fra le più importanti rassegne di musica improvvisata (ci si passi la genericità del termine). Beldì, novarese, è però anche vicepresidente di Confindustria Emilia-Romagna, nonché socio e presidente di uno stabilimento di produzione di argilla espansa e premiscelati per l’edilizia, materiali largamente usati nel settore delle costruzioni, in particolar modo per l’isolamento termico e acustico e nei lavori di ristrutturazione di edifici storici. Il suo è quindi uno sguardo d’insieme su una realtà che l’aggressione di Covid-19 rende ogni giorno più lacerata e sofferta, su un paesaggio che mostra già sfregi e macerie ovunque.

In questo scenario così mutevole è certamente difficile sbilanciarsi con previsioni, ma prima di parlare della situazione della filiera del jazz italiano, vorrei chiederle come vede lei la realtà generale del paese, certamente imprescindibile da quella del settore della cultura
Sì, ogni previsione rischia di essere bruciata dall’evolvere contino degli avvenimenti. A oggi abbiamo un orizzonte temporale, il 15 aprile, superato il quale molti dei danni attuali potrebbero essere irreversibili. Molte aziende chiuse oggi potrebbero non riaprire, generandole conseguenze che ognuno può immaginare. Serviranno interventi di grande peso, da parte dello Stato, che peraltro è già molto indebitato. Rischiamo di entrare in una spirale malefica di forte aumento della tassazione e aumento del debito. Abbiamo allo stesso tempo la necessità di una mano pubblica che guidi la rinascita, senza essere tuttavia invadente. È uno scenario pesante, difficilissimo che richiede risposte forti e non solo a livello nazionale. Dal punto di vista del PIL, rischiamo di tornare indietro di almeno dieci anni. Ovviamente non è mia intenzione criticare le misure adottate dal Governo, se ne sono sentite anche troppe in questi giorni, tuttavia credo che sarebbe necessaria una maggiore attenzione verso il mondo dell’impresa, che copre oltre il 70% del gettito fiscale e che da tempo chiede minor burocrazia, incentivi per gli investimenti e una riduzione sostanziale della pressione fiscale, a partire dal costo del lavoro. Questa fase di difficile equilibrio fra tutela della salute e futuro economico del Paese deve aprire una fase nuova, in cui la cultura d’impresa deve trovare una nuova centralità.
Ci può delineare la situazione della filiera, se così si può chiamare, del jazz italiano?
Certo che si può definire così. I-Jazz rappresenta una sessantina di associazioni intorno alle quali gravitano, come in tutti gli altri settori dello spettacolo, molte altre figure professionali, oltre agli artisti; amministrativi, grafici, uffici stampa, tecnici del suono. Spesso sono lavoratori autonomi, partite Iva, persone che lavorano su fattura e non hanno tutele di nessun genere, se non lavorano, non hanno introiti. Gli unici a cavarsela, ad avere prospettive, sono i musicisti che insegnano nelle scuole pubbliche o nei conservatori. I tanti che hanno aperto ottime scuole private, sono oggi in difficoltà. Migliaia di eccellenti professionisti hanno davanti queste pessime prospettive. Intanto sono saltati tutti i festival di primavera e la ripresa appare problematica perché, innanzitutto, non c’è (e non potrebbe esserci) alcuna certezza della data di riapertura. Se anche l’Italia riaprisse, rimarrebbe, data la diffusione del virus in tutta Europa e non solo, il problema di artisti stranieri che non possono muoversi dal loro paese. Infine, quand’anche si dovesse ripartire, avrà il nostro pubblico soldi e spirito per tornare a riempire piazze o teatri? Non so quante delle nostre associazioni e fondazioni torneranno a operare. Noi chiediamo al Governo, e non solo per noi gente del jazz, una cura da cavallo per la cultura. Un investimento forte in un settore ad alta qualità professionale e importante anche per l’immagine del paese e per il turismo. La cultura crea lavoro diretto e indotto. Se non valorizziamo questo “oro nero” faremo fatica a ripartire. Ci tengo tuttavia a dire che capiamo bene la realtà tragica del paese e la nostra associazione ha lanciato una campagna di raccolta fondi in aiuto dell’Ospedale di Bergamo (#Jazz4Bergamo). Per lanciarla, ogni due sere trasmettiamo un concerto in streaming. Il primo è stato quello di Maria Pia De Vito, artista immensa e direttrice artistica del festival di quella città così fortemente martoriata.”
Quindi lei crede che la cultura e la creatività siano materie prime dell’economia?
Lo sono. Vede, in Confindustria mi occupo per l’Emilia-Romagna di capitale umano e dunque di formazione e lavoro. La cultura non è solo quella umanistica. La creatività non è solo quella letteraria e musicale. Oggi, in Italia, una azienda trova solo un tecnico specializzato su cinque posti disponibili, mentre altre aree dell’Europa, che competono con noi, penso alla Germania, non hanno questi problemi perché investono più risorse sulla formazione tecnica secondaria e superiore. Confindustria e sindacati chiedono da tempo ai vari governi una maggiore attenzione su questo ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti. L’Italia, oltre ad aumentare il numero di laureati in discipline tecnico scientifiche, dovrebbe moltiplicare per dieci il numero di ragazzi in formazione tecnica, se non vogliamo che le nostre imprese si ritrovino senza capitale umano e dunque impossibilitate a competere sui mercati internazionali. La creatività in tutti i campi, l’innovazione, il saper leggere la realtà che muta, richiedono cultura, apertura mentale, studio ed un potenziamento dei cosiddetti “soft skills” in un mondo del lavoro che ci richiede di cambiare spesso ruolo ed attività e di saper lavorare in squadra. Non nego certo l’essenzialità della cultura umanistica, il nostro paese si basa su quella cultura e il turismo, con la ricchezza che genera, sarà una delle chiavi della nostra ripartenza ma sono convinto che l’Italia abbia bisogno di umanisti che si adeguino alle nuove realtà e allo stesso tempo di tecnici in grado di leggere i mutamenti tecnologici e di mercato, anche attraverso la conoscenza della letteratura o della musica. Sì, penso ad Adriano Olivetti, a quell’utopia lontana, cui dovremo, seriamente, tornare a guardare.

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