di Alessandro Agostinelli
Quando uscì Steppin’ Out diventai pazzo. Era il 1982, l’Italia aveva vinto i mondiali di calcio, avevo 17 anni e stavo entrando in un tempo che legava insieme il futuro con i meravigliosi anni Cinquanta del “secolo breve”. Sì, perché per gli amanti del jazz, gli anni Sessanta erano pur sempre il decennio del rock’n’roll e quindi trovarsi davanti la copertina stilizzata di un pianoforte gran coda con lo skyline di New York City era un’emozione pazzesca, voleva dire cercare altre fonti, altri miti originari. Dentro a quel vinile c’è una foto che mi sembrava elettrizzante; ancora oggi penso che i vestiti di Joe Jackson e dei suoi musicisti in quell’immagine siano roba sempre attualissima.
C’è un senso di fatiscenza nello sguardo di un ventenne che si accorda perfettamente con cose poco più vecchie del suo tempo. C’è un’atmosfera di modernariato nello stile di ogni ragazzo che lo tiene in bilico tra passato prossimo e futuro.
Al tempo eravamo proprio in quella circostanza temporale, in quel mood che ci portava a guardare i luoghi della nostra Italia come spazi immaginari da attraversare con la musica. E una della musiche più incredibili e gioiose che si potesse ascoltare la faceva proprio quel signorino dalla fronte spaziosa, dagli occhioni grandi, con quell’aria tra il malinconico e lo sprezzante, tra il primo della classe e lo scontroso che era Joe Jackson.
Aveva talmente avuto successo la sua miscela di pop, jazzy, e latino che l’album successivo, quello del 1984 faceva proprio il filo e copiava i long-playing degli anni Quaranta e Cinquanta, con artista in primo piano virato seppia, il codice del disco in bella mostra, e dietro musicisti, scaletta dei pezzi e testo di un critico di turno.
In quegli anni “Night and Day” e “Body and Soul” furono due vinili magici per i ragazzi di tutta Europa e degli Stati Uniti, in una parola chiamerei (se non vedessi l’amico storico guardarmi storto) “occidente”. Due chiavi per penetrare il mondo musicale del passato con la formula creativa di chi guarda avanti.
Gli anni Ottanta del Novecento sono stati uno dei periodi più fecondi in campo culturale. Non solo nella musica, ma anche nel cinema, nell’arte e nella letteratura. Noi che li abbiamo vissuti lo diciamo da tempo. Adesso si comincia a esserne consapevoli anche a livello più diffuso.
Così, il 22 luglio, al Teatro Romano di Fiesole non ci sarà sul palco soltanto Joe Jackson, in questa unica data estiva italiana del suo tour, ma ci sarà anche tutta l’aria di un’epoca.
Insieme ad altri musicisti inglesi di quel periodo (Paul Weller ed Elvis Costello su tutti), Joe Jackson ha avuto il merito di riprendere stilemi musicali del jazz anni Cinquanta, della bossa e del soul e renderli pop, cioè disponibili in canzoni-manifesto musicale per tutti i ragazzi di quelle generazioni.
Stavamo in piedi ore a parlare di politica e di canzoni, ore in piedi a discutere di come si vestiva tizio e di cosa avremmo visto la sera al locale, ore a parlare di libri e film, bevendo cocktail. Eravamo felici. Eravamo giovani. Non avevamo problemi di studio o di lavoro, né lo avevano avuto i nostri genitori. Fu qualche anno dopo, quando la Thatcher e Reagan tolsero il sorriso a una parte del cielo che stava bene ma non aveva santi in paradiso, che capimmo che qualcosa stava cambiando. Poi con la caduta del Muro di Berlino avemmo un momento di infatuazione di un nuovo inizio, ma tutto poi divento più nero del solito. Sì, negli anni Novanta reggemmo alla crisi. Dopo siamo ancora qui che ci stiamo arrabattando dentro.
Perciò farà gola, salire sul colle fiesolano, certamente per un compito di nostalgia, ma anche per una sfida. Il modo per capire cosa avrà da raccontarci questo signore sbarazzino che suona il pianoforte come una ballerina geniale, e che avrà da offrirci la sua valuta più preziosa: la musica della sua carriera.