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Francesco Rosi: l'ultima intervista

Ci sono onori che un giornalista non vorrebbe avere: uno di questi è essere stato uno degli ultimi ad incontrare Francesco Rosi

Francesco Rosi: l'ultima intervista
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10 Gennaio 2015 - 14.23


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di Marco Spagnoli
@marco_spagnoli

Ci sono onori che un giornalista, un filmaker non vorrebbe avere: uno di questi è quello di essere tra gli ultimi ad incontrare un grande regista, un ‘mostro sacro’ del cinema italiano ed internazionale.

Nella primavera del 2014 mi è stato chiesto dal direttore del Festival di Bari, Bifest, Felice Laudadio di incontrare Francesco Rosi per un’intervista su Gian Maria Volonté, attore che ha diretto più di ogni altro autore italiano allo scopo di inserire questo breve cortometraggio sul suo rapporto con Volonté nell’ambito della retrospettiva dedicata all’attore scomparso venti anni fa.

Insieme al mio montatore Jacopo Reale e al DP Niccolò Palomba mi sono recato in via Sistina dove Rosi abitava e ho incontrato il grande maestro per una chiacchierata di un paio d’ore. L’ho trovato un po’ stanco, ma non appena ha iniziato a parlare ha tirato fuori la solita travolgente intelligenza e irruenza che hanno caratterizzato sia la sua personalità che il suo lavoro.

Francesco Rosi è stato uno degli autori più importanti del cinema italiano: per il suo coraggio, per il suo impegno, per la sua determinazione e una lucidità e onestà intellettuali che l’hanno accompagnato fino alla fine.

Il risultato di questa nostra conversazione si intitola Unico – Francesco Rosi racconta Gian Maria Volonté,impreziosito dalla musica di Massimialino Di Carlo che sarà riproposto a Bari, durante il Festival che quest’anno si tiene dal 21 al 28 marzo Marzo insieme ad un grande tributo al Maestro napoletano. Qui di seguito, però, voglio ripubblicare una lunga ntervista che ho realizzato con Rosi nel 1997 all’indomani dell’uscita de La Tregua, il suo ultimo film da regista.

Non amando, infatti, i “coccodrilli” e le celebrazioni, preferisco lasciare spazio alle parole del Maestro per ricordarlo come un grande artista, un grande regista e un grande uomo e dare voce, ancora una volta, alla sua grande personalità e intelligenza di cui sentiamo già la mancanza, soprattutto, come cittadini italiani.

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C’è lo zampino di Martin Scorsese nella realizzazione della trasposizione cinematografica de La tregua, romanzo di Primo Levi. E’ stato, infatti, il cineasta americano a cercare dei produttori e a mettere in condizione il regista Francesco Rosi di potere girare questo film costato oltre venti miliardi tra numerosissime comparse e set assai complicati in Polonia e Ucraina.

Ed è così che Rosi, regista napoletano settantacinquenne, vero e proprio monumento della nostra cinematografia, autore tra l’altro di film come Il caso Mattei, ha potuto portare a compimento un’opera che si può considerare alla stregua dello spielberghiano Schindler’s list, una delle più importanti e forti testimonianze cinematografiche sulla Shoah.

Maestro Rosi, perché ha deciso di realizzare la trasposizione cinematografica di questo romanzo di Primo Levi ?

Quando La Tregua fu pubblicata nelle edizioni Einaudi ormai più di trent’anni fa, nel 1963, impressionò moltissimo registi e produttori. Io fui tra coloro i quali ne rimasero maggiormente colpiti tanto che fino da allora incominciai ad accarezzare l’idea di poterne trarre un film.

Che cosa glielo impedì allora ?

Il 1963 fu l’anno della mia vittoria del Leone d’oro a Venezia per Le mani sulla città. Fu un anno molto complesso a livello personale e realizzare un film del genere non era di certo una cosa facile. Passarono gli anni e fui assorbito da altri progetti e misi da parte questo lavoro.

Quando ha cominciato a pensarci di nuovo ?

Nel 1987, quando film sull’Olocausto come Schindler’s list erano ancora molto lontani. Telefonai a Primo Levi e gli chiesi il libro per farne un film e la cosa mi riempì di un senso misto di orgoglio e responsabilità. Mi disse che la mia proposta gli portava un po’ di luce in un momento molto buio della sua esistenza.

Solo una settimana dopo, Levi decise di suicidarsi nella maniera tragica che tutti sappiamo. Questo bloccò a lungo il mio progetto perché il trauma che io stesso ne ricevetti fu assai duro da superare. Anche allora accantonai il progetto, ma stavolta con l’intento di tornare quanto prima ad occuparmene.

Girai due film (Cronaca di una morte annunciata e Dimenticare Palermo), e fu solo in seguito alla caduta del muro di Berlino e alle sue tragiche conseguenze all’interno dell’ex-Jugoslavia che sentii come assolutamente necessario girare questo film per sostenere e riaffermare ancora una volta il messaggio di fratellanza di Primo Levi.

Come ha scelto John Turturro per il ruolo del protagonista ?

Ho visto Turturro in due film ad un Festival di Cannes : Barton Fink dei fratelli Coen e Jungle Fever di Spike Lee. Quello che assolutamente mi impressionò fu la somiglianza di Turturro con le foto di Primo Levi da giovane. Grazie a Martin Scorsese fui in grado di contattarlo e lui accettò subito la parte in maniera molto entusiasta.

Martin Scorsese ha giocato davvero un ruolo rilevante nella realizzazione di questo film…

E’vero, devo molto a Martin, ma sa lui è sempre stato un mio amico e un mio ammiratore. Pensi che conserva nella sua cineteca personale una copia in pellicola del mio Salvatore Giuliano.

Che difficoltà ha trovato nel realizzare questo progetto?

Oltre alle assai comprensibili difficoltà di carattere artistico, ci sono state quelle collegate alla vera e propria realizzazione delle riprese. Alcuni giorni il termometro ha avuto picchi negativi di -20 e -40 gradi sotto zero, costringendoci a rimanere chiusi in albergo. Abbiamo interamente ricostruito il campo di concentramento di Auschwitz in una zona al confine con i Carpazi, utilizzando una quantità impressionante di manodopera locale. Sono stati, infatti, circa 250 i falegnami hanno costruito le scene e gli arredamenti.

Perché ha scelto località “difficili” come Ucraina e Polonia per le riprese ?

Un po’ perché sono i luoghi in cui è ambientato il romanzo, un po’ per l’inquietante fatto che negli sguardi spaventati dei bambini e in alcune movenze dei vecchi ho ritrovato volti ed espressioni descritti da Levi e fermi in quei luoghi da oltre cinquanta anni.

Che cosa ha voluto raccontare con questa pellicola?

L’odissea del ritorno alla vita di un gruppo di esseri umani scampati all’inconcepibile disegno nazista dello sterminio preordinato di ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti politici, malati e di tutti coloro i quali fossero “diversi” per un motivo o per l’altro dalla razza ariana. Il tema della vita che resuscita dopo lo scontro con questa follia è un’occasione enorme di meditazione anche sui misfatti del presente.
Ciò che mi stimolava maggiormente era raccontare sullo schermo quello che sembrava essere riuscito così facilmente a Levi ; ovvero la riconquista della vita, il ritorno della speranza, attraverso le naturali, piccole, grandi e gioiose occasioni di ogni giorno che finiscono per affermare la superiorità della vita sulla morte.

Guardando il suo film non si può fare a meno di pensare alle parole del famoso critico Gerard Génette che scrisse : “Il comico è il tragico visto di spalle”...

Trovo molto corretta quest’espressione soprattutto quando si pensa ad un romanzo come La tregua. Questa è stata la mia vera sfida nel dirigere questo film, ovvero raccogliere la grande intuizione di Primo Levi come testimonianza del dolore, ma anche come incessante alternarsi della tragedia e del grottesco, al limite, a volte, quasi del comico, in una visione che unisce pietà ed ironia. Levi stesso dichiarò una volta di avere scritto questo libro soprattutto per commuovere, ma anche per divertire.

Che cosa ha “in più” questo suo film rispetto al libro ?

Io ho diretto questa storia tenendo conto di due grandi filoni di racconto: il divertimento e la commozione. Ho, dunque, cercato di ricreare lo spirito che animava La tregua, rendendone partecipi gli spettatori tramite il mezzo cinematografico. Grazie a suoni, immagini e parole ho cercato di trovare quella sorta di “combinazione magica” che solo il cinema è in grado di creare per potere raccontare le atmosfere, i pianti e le risate del romanzo.

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