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Dalla Corea al Pakistan: quando Hollywood va alla guerra

L'attacco nord coreano alla Sony, il pachistana adirato per Homeland, l'Egitto censura Exodus: una sorta di Hollywar che somiglia realmente a una Holy War.

Dalla Corea al Pakistan: quando Hollywood va alla guerra
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31 Dicembre 2014 - 10.32


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Hollywood è finito sotto accusa e non è solo il dittatore nord coreano Kim Jong-un ad essere adirato con la macchina dei sogni americani per il film “The Interview”: il Pakistan ha infatti manifestato il suo dissenso per il film “Homeland”, mentre l’Egitto ha censurato l’ultimo film di Ridley Scott “Exodus: Dei e Re”. Ancora una volta il mondo del cinema, è utilizzato come pretesto per parlare discutere di politica internazionale.



di Vittorio Zucconi

Adorata ed esecrata con eguale trasporto da ammiratori e detrattori nei cento anni dalla sua nascita in un sobborgo di Los Angeles, Hollywood torna ad accendere quel Kulturkampf, quella guerra dei mondi e delle culture che l’industria cinematografica americana con ineguagliata sapienza e con faraonici profitti coltiva. Fra marketing e creatività, fra propaganda politica esplicita o implicita, la più formidabile fabbrica di cultura popolare mai costruita è di nuovo bersaglio di governi permalosi e di regimi con lunghe code di paglia, trascinata in una sorta di Hollywar che somiglia realmente a una Holy War, a una guerra santa.

È stato l’ormai celeberrimo caso del polpettone farsesco The Interview a riaprire lo studio globale in cui, già dalla messa al bando nel 1940 in Italia e in Germania del Grande Dittatore di Chaplin, si gira la saga del duello fra Hollywood e il resto del mondo, sul filo della contraddizione tra filo e anti americanismo. The Interview, che ha già reso alla Sony 14 milioni di dollari in cinque giorni, è stata scaricata legalmente sul web tre milioni di volte, più i milioni piratati: ma è stato soltanto l’affaire più vistoso, non l’unico. Mentre le talpe informatiche di Kim Jong-un, o chi per lui, o chiunque fossero e dovunque si trovassero, in Cina o in un Internet Cafè dietro l’angolo di casa, frugavano nelle viscere della Sony, il governo pachistano protestava contro una puntata del serial tv Homeland. Si considera insultato per le insinuazioni contro i propri servizi di intelligence, l’Isi (semplice coincidenza di acronimi con i macellai jihadisti del nuovo califfato), accusati di fare il doppio gioco fra gli Usa e il terrorismo islamista. Sospetto che da decenni aleggia, ben oltre i telefilm.

E anche il governo egiziano, che pure “ben altri” problemi, come vuole il lessico qualunquista, avrebbe, dichiarava la propria “Hollywar” contro l’ultima, ennesima riedizione hollywoodiana della vita di Mosè nel nuovo Exodus – Dei e re di Ridley Scott. Film colpevole, per Il Cairo, di “gravissime distorsioni ed errori storici” nella descrizione del trattamento degli israeliti nelle mani dei Faraoni e nel provvidenziale spalancamento della acque del Mar Rosso verso la Terra Promessa. Come se esistessero inoppugnabili fonti e documenti storici che comprovassero l’apertura delle acque al passaggio dell’Esodo e la loro tempestiva chiusura sulle empie schiere egizie.

Ma proprio nella confusione fra realtà e leggenda, nella decostruzione della storia per ricostruirla a piacere, sta da sempre la forza irresistibile di “Tinseltown”, ossia della “città di stagnola”, come fu ribattezzata l’industria della fantasia negli anni ’70, quando ormai da tempo anche Hollywood era una finzione, essendo gli studi ormai ben oltre la collina dei fichi – così si chiamava in origine – nella lontana vallata degli aranceti. La irritata stupidità dei censori e dei permalosi non demolisce, ma al contrario avvalora la potenza di questa che è stata, da sempre, ma soprattutto nei decenni dello scontro ideologico fra capitalismo e socialismo, la più letale delle armi improprie. La voluttà del piacere proibito che travolgeva i compagni sovietici di fronte alle più grossolane pellicole hollywoodiane contrabbandate oltre Cortina e guardate nel segreto dei primi videoregistratori era il tributo più sincero al successo della città della stagnola.

I despoti di ieri come i fanatici di oggi sapevano bene quanto penetranti e devastanti potessero essere film che senza apparente intenzione propagandistica narravano l’epopea del bene contro il male, verso la vittoria inevitabile del bene. Cioè dell’America. Quando l’agenzia ufficiale nordcoreana, cioè l’unica esistente a Pyongyang, risponde a Barack Obama definendolo “una scimmia nella giungla”, anche la spazzatura come The Interview costa al regime familiare dei Kim più di una battaglia perduta e rende milioni alla macchina dei sogni. E se il governo pachistano respinge indignato la descrizione di Islamabad, la capitale, come una città ad alto rischio, non si accorge che bastano pochi minuti di ricerca in Rete per riscoprire quanti, e terribili attentati, l’abbiano colpita. Persino voci dal mondo ebraico americano hanno lanciato qualche rimprovero ai produttori del nuovo “Mosè 2014” accusandoli di avere utilizzato un attore non ebreo, Christian Bale, nella parte del salvatore del popolo israelita. Mentre gli egiziani naturalmente storcevano il naso di fronte a un Faraone nato in Australia come Joel Edgerton.

Nella loro irritazione, i combattenti nella guerra a Hollywood dimostrano di avere tuttavia capito quanto essenziale sia la falsificazione della realtà, o la reinterpretazione dei miti, fatta dal cinema americano per produrre molta parte di quei 20 miliardi di dollari in valore netto d’esportazione che esso genera per la bilancia commerciale Usa, voce seconda soltanto all’aereospaziale. Se ancora il Why We Fight, “Perché combattiamo”, commissionato a Frank Capra dall’Esercito nel 1942, era pura propaganda di guerra a uso interno per reclute e per compratori di Buoni di Guerra, come addirittura faceva anche Topolino, fu con Harry Truman e la Guerra Fredda che la città dove nulla è vero dunque tutto è credibile dispiegò la propria potenza di fuoco contro la minaccia rossa.

La Cinecittà mussoliniana, la Reichsfilmkammer di Goebbels o la Mosfilm creata da Stalin non avrebbero mai potuto raggiungere, ingessate nella burocrazia di regime nonostante la bravura di chi ci lavorava, la creatività insinuante di una cinematografia che non aveva bisogno di narrare rozzamente gli orrori del nemico, ma poteva esaltarsi nella descrizione dell’American Way Of Life , della vita quotidiana negli Stati Uniti. Hollywood poteva permettersi di sfornare cinepanettoni anticomunisti come Alba Rossa, di disegnare macchiette come il John Wayne di Berretti Verdi, di sorridere con il grande Robin Williams, transfuga con il suo sax in Mosca a New York, perché, a differenza del cinema di regime, sapeva anche sfottersi e autodilaniarsi nel Dottor Stranamore, nei Giochi di Guerra, nei lavori di Oliver Stone o di Francis Ford Coppola. La propaganda diventava credibile perché esisteva il controcanto dell’autocritica.

Di questo, alla fine, hanno terrore i governi, i regimi, i censori che dichiarano guerra a Hollywood, ai suoi peggiori film e alle più dozzinali serie tv. Temono la inarrestabile capacità di macinare il peggio e il meglio, di impastare la political fiction con la science fiction , lo sghignazzo triviale con la seducente nevrosi della quotidianità urbana di Woody Allen, di mescolare E. T. con la caricatura del capitano Ramius ai comandi del suo Ottobre Rosso. È paura della libertà, quella che produce boiate come capolavori e sa raccontarsi nel bene e nel male, oltre la Guerre Sante. Magari impressionando anche i nemici, come quel Nikita Kruscev che volando sopra Los Angeles confessò all’interprete: “Ma allora non era solo un film, ce le hanno davvero tutte queste piscine”.

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