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Venezia 71, Io sto con la sposa: la guerra, la fuga, la speranza

Un atto politico, un’opera visionaria, coraggiosa e toccante: alla mostra del cinema di Venezia il documentario sul finto corteo nuziale che ha sfidato le regole della fortezza Europa.

Venezia 71, Io sto con la sposa: la guerra, la fuga, la speranza
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4 Settembre 2014 - 14.02


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Non un semplice documentario sulla vita e le speranze dei profughi che sbarcano sulle nostre coste, non un diario di viaggio, ma un atto politico, una presa di posizione chiara e decisa contro le leggi sull’immigrazione che ostacolano la libera circolazione delle persone, contro le frontiere, contro le morti in mare. Io sto con la sposa, presentato questa sera fuori concorso (e ieri proiettato per i giornalisti) alla 71esima edizione del festival del cinema di Venezia, è innanzitutto un film schierato. Lo dicono chiaramente i tre registi, Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry: “arriva sempre nella vita il momento in cui scegliere da che parte stare”. E così con coraggio e quel pizzico di follia tipico di chi sa di essere nel giusto, i tre hanno scelto di stare dalla parte di chi disobbedisce perché non ha altra scelta. E di rischiare in prima persona, sfidando le regole e le leggi della Fortezza Europa per permettere a cinque siriani palestinesi, fuggiti dalla guerra, di realizzare il loro sogno e raggiungere la Svezia. Il risultato è un’opera coraggiosa, visionaria e toccante che, senza retorica, mostra attraverso i volti e le voci dei protagonisti i drammi della guerra, ma anche l’altra faccia di un’Europa, giovane e solidale, che non chiude le sue porte, ma sa accogliere. Un’opera destinata a far discutere e a riaprire il dibattito sull’accoglienza, proprio nei giorni in cui in Ue si discute sulla nuova operazione Frontex plus.

L’abito bianco, simbolo di libertà, un lasciapassare dalla Siria a Stoccolma.
Il film convince fin dall’inizio, perché l’idea di mettere in scena un finto matrimonio per attraversare la frontiera di cinque paesi, appare subito geniale e al tempo stesso poetica. E così un viaggio rischioso (i registi possono essere accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) si trasforma in corteo nuziale, in una mascherata goliardica che stempera il peso dell’intera operazione illegale. E a tratti ricorda le atmosfere di festa del “Gatto nero, gatto bianco” di Kusturica. Protagonista assoluto è un abito da sposa, che dalla Siria a Stoccolma diventa un simbolo di libertà. E’ l’abito bianco indossato come un lasciapassare durante tutto il film (per quattro giorni di fila, dal 14 al 18 novembre 2013) dalla bella attivista palestinese Tasnim. Lo stesso lasciapassare che aveva permesso a Gabriele Del Grande di sfuggire ai cecchini in Siria, e che ora diventa il trait d’union di un impegno civile che parte da lontano. “Ho un portafortuna – racconta Del Grande nel film, estraendo dalla tasca un pezzo di stoffa bianca -. L’ho preso ad Aleppo. Eravamo chiusi in una casa da due giorni sotto le bombe, quando è arrivato un ragazzino che avrà avuto nove o dieci anni. Aveva con sé un vestito da sposa, poi ha preso le forbici e lo ha tagliato. E ci ha dato questo pezzo di stoffa bianca. Ce lo siamo messi in testa, come una benda, perché era il segnale per i cecchini di non sparare. E così è stato. Se ha funzionato lì funzionerà anche ora”.

Oltre i numeri, l’orrore della guerra negli occhi di Abd, Manar e Tasnim.
Ed è proprio la Siria, raccontata da Del Grande nei suoi reportage, e da Khaled Al Nassiry nelle sue poesie, il luogo da cui i protagonisti sono stati costretti a scappare, a causa di una guerra che non risparmia più nessuno. E attraverso i loro racconti ne conosciamo i contorni più oscuri, sappiamo cosa significa vivere sotto il rumore delle bombe (“A volte a casa mettevo le cuffie a tutto volume e cominciavo a ballare, ballare, ballare” racconta Tasnim), cosa significa affidarsi ai trafficanti per sfuggire a una condizione ormai invivibile, cosa significa sopravvivere a un naufragio. Cosa c’è dietro i numeri e a quel conteggio quotidiano degli sbarchi sulle nostre coste (oltre centomila arrivi dal 1 gennaio a oggi). Tra i protagonisti del finto corteo nuziale, c’è infatti anche Abdallah, un giovane siriano scampato al naufragio dell’11 ottobre 2013 a largo della Sicilia, costato la vita a 26 persone e che conta ancora 250 dispersi. “Siamo rimasti un’ora e mezza a largo, tutto intorno c’erano cadaveri che galleggiavano, ma né Malta né l’Italia si decidevano ad intervenire – racconta il ragazzo in una delle scene più toccanti del film -. A un certo punto hanno iniziato a buttare i cadaveri a bordo, uno sull’altro, me li sentivo addosso, mentre ero disteso a terra. Ma non riuscivo a muovermi, così ho mosso una mano per far capire che ero vivo. Ero riuscito a sopravvivere a un naufragio e stavo per soffocare sotto i cadaveri”. Quando Abdallah racconta il suo viaggio il gruppo ha appena passato la prima frontiera, attraverso quel passo della morte, utilizzato in passato anche da molti italiani che cercavano di arrivare in Francia senza documenti. E ai muri di un piccolo ricovero che sorge a metà strada, in tanti nel passaggio hanno affidato i loro pensieri. Lo fanno anche loro per ricordare che “il cielo è di tutti” e che “se devi vivere vivi libero, altrimenti muori come gli alberi, immobile”.

“Dove c’è tanta morte c’è anche tanta vita”.
Ma il viaggio del finto corteo nuziale è anche un lungo messaggio di speranza, che cresce a mano a mano che ci si avvicina alla meta. Ce lo ricordano gli occhi allegri di Ahmed che seduto in macchina accanto alla sua Mona, non le lascia neanche per un istante la mano. Felice, dopo trent’anni di matrimonio, di esser riuscito a farle vedere la Francia, seppur per poche ore: “Lo facciamo per i nostri figli – spiegano – perché possano avere una vita migliore”. Ed è l’amore paterno a spingere anche Alaa, partito dalla Siria insieme a suo figlio, lasciando a casa il resto della famiglia. E’ convinto che Manar, con il nome di Mcmanar, possa diventare un grande rapper e su di lui ha deciso di scommettere a rischio della vita. Le loro testimonianze sono un documento prezioso che aiuta a capire chi sono oggi i profughi che transitano nel nostro paese. Non più migranti economici, ma persone in fuga, costrette a lasciare la propria terra. E in particolare la Siria, dove la guerra ha distrutto la vita di tante persone, ma non ha ancora tolto alla popolazione il coraggio di sognare: “dove c’è tanta morte – ricorda Tasnim – c’è sempre anche tanta vita”.

Un successo che nasce dal basso: oltre duemila i produttori del film.
Quando alla fine dei quattro giorni di viaggio il corteo arriva a Stoccolma, dopo aver superato la temutissima frontiera tedesca, con un piano studiato attraverso i racconti di chi in passato si era affidato ai trafficanti, la gioia è incontenibile perché tutti hanno ben chiaro di essere riusciti a realizzare un’impresa impossibile. Se la pellicola avrà successo anche tra il grande pubblico, si saprà solo dopo il 9 ottobre quando partirà la distribuzione nelle sale. Ma il lavoro è già un film-evento. Lo sottolineano chiaramente i cinque minuti di titoli di coda dedicati ai produttori dal basso che hanno deciso di scommettere su questa folle impresa, finanziando Io sto con la sposa con centomila euro, il più grande crowdfunding del cinema italiano. 2.617 persone che hanno sostenuto questo atto di disobbedienza civile, alzando la voce in nome di quella Spoon river dei migranti, che ormai conta oltre ventimila persone morte nel tentativo di passare la frontiera e raggiungere l’Europa. (ec)

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