E’ dalle pagine del sul blog che Daniele Luttazzi risponde con graffiante ironia all’articolo a firma di Andrea Scanzi, pubblicato il 30 gennaio 2015 sulle pagine de Il Fatto Quotidiano. Il comico risponde punto su punto alle critiche mosse dal giornalista, che nel pezzo è definito come il «Mogol dei coccodrilli», perché autore di articoli che hanno sempre «la forma e la sostanza di un necrologio», e «non solo quando si occupa di grandi artisti defunti che non hanno alcun bisogno della sua commemorazione commossa, ma soprattutto quando prende di mira fenomeni ancora vivissimi, di cui descrive una decomposizione che solo lui vede, e che non c’è»: Luttazzi ha preso di mira Scanzi, facendolo diventare il capo branco dei giornalisti che si dedicano a quello che è definito come il «kitsch sentimentale» che «si compiace del patetismo», per compiacere le masse di lettori.
Luttazzi passa quindi a descrivere quello che per lui è ormai il modello Scanzi che, ormai collaudato, è sempre lo stesso:
X, che una volta era un grande, ora non lo è più. Variante: anche se ora non lo è più, X era un grande. Il modello gli serve per denigrare, la variante per esaltare; ma l’effetto ricercato è sempre lo stesso: il kitsch sentimentale.
Per mettere in evidenza il modus opeandi del giornalista de Il Fatto Quotidiano, Luttazzi porta ad esempio gli ultimi articoli scritti: ““Benigni, quel che resta di lui” e “Pace alla satira sua”, articolo incriminato in cui è nominato lo stesso comico.
Come da modello, sul primo vagoncino di Andrea troviamo la satira tv di una volta, sul secondo quella di oggi. Il viaggio comincia con la domanda: “Che fine ha fatto la satira in tv?”, e procede bene nel ridente panorama storico ricostruito, ma a un certo punto il trenino scambia le cause con gli effetti, e deraglia. Per riportarlo sui binari, allora, occorre precisare che la nostra assenza dalla Rai, prima, e da altre emittenti, poi, non fu un fenomeno accidentale, di quelli atmosferici, ma un atto di censura, deciso ed eseguito da dirigenti scelti alla bisogna; e quindi sottolineare quali, fra le cause elencate da Andrea, sono invece conseguenze: alcune strategiche (le tv invase da programmi e intrattenitori comici dissimulano l’avvenuta censura alla satira), altre inevitabili, ma che non c’entrano con la sparizione della satira dalla tv italiana (all’estero, il ruolo meno dominante della tv e i gusti delle nuove generazioni non hanno intaccato la quantità e la qualità della satira tv), altre comprensibili, ma non determinanti (l’autocensura dei comici, poiché la censura funziona e stronca carriere; o l’impreparazione satirica dei nuovi).
E Luttazzi sa bene, come ha scritto, che «se nella tv italiana non c’è più satira, ma solo divertimento e caricature irrilevanti, la colpa è esclusivamente della censura di questi anni di inciucio».
E quando Scanzi prova a fare una distinzione tra politico e partitico (termini in cui regna grande confusione tra i giornalisti italiani, Luttazzi spiega: «La satira è sempre politica, ma non è più satira quando diventa propaganda partitica. La differenza è che la satira è arte, e lascia l’uditorio libero di decidere sul da farsi, mentre la propaganda partitica è marketing del potere, e ti dice per chi votare. Se fondi un partito, sei encomiabile: ma da quel momento non riuscirai più a fare satira», attaccando palesemente Grillo, già preso di mira in un altro post sul suo blog.
E sulla sua esperienza personale e l’addio forzato al piccolo schermo, ricorda Luttazzi: «Ho continuato a fare satira, politicamente: come ho spiegato in tutte le interviste possibili, ho deciso di non fare teatro finché non potrò tornare in tv», perché «ricevo proposte per nuovi programmi tv ogni anno, ma tutto si incaglia sempre su scogli di natura legale: le tv vogliono poter tagliare il materiale che non condividono, poiché temono le cause giudiziarie, anche se le mie vittorie giudiziarie dimostrano ampiamente che non sono un irresponsabile. Io tengo il punto: la satira o è libera, o non è».
Infine a conclusione del suo intervento l’ultimo attacco a Scanzi, che suona come una di consiglio e un incentivo a informarsi sui fatti:
Non commettere anche tu l’errore di confondere la realtà vera con la realtà creata dai media. E’ il caso della querelle plagio. Dopo quel monologo che denunciava l’inciucio bipartisan, alla minimizzazione seguì una campagna stampa diffamatoria che strumentalizzava falsità diffuse in Rete da anonimi incompetenti. Non c’era alcun plagio, né i comici stranieri gentilmente informati dai diffamatori mi hanno fatto causa. L’orda considerava plagio, fra l’altro, la mia battuta su Giuliano Ferrara, che fu il pretesto con cui Campo Dall’Orto chiuse Decameron; ma una sentenza del 2012 afferma che non era affatto plagio: mi hanno risarcito con un milione di euro. Parlare ancora, dopo sei anni, di generica querelle plagi, è un modo per continuare la gogna a mezzo stampa, parandosi il culo. Continua pure. Se però vuoi approfondire davvero la materia, nelle mie interviste sul Fatto trovi tutti i riferimenti utili. Scoprirai, fra l’altro, che uno dei responsabili di quel killeraggio ha confessato la mascalzonata (nascosero la parte rilevante della vicenda per darmi del disonesto) e mi ha chiesto perdono.