Addio Wes Craven, signore dell'incubo | Giornale dello Spettacolo
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Addio Wes Craven, signore dell'incubo

Il regista americano di Nightmare e Scream, 76enne è morto dopo una diagnosi di tumore al cervello.

Addio Wes Craven, signore dell'incubo
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31 Agosto 2015 - 08.32


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Dieci anni fa ho avuto modo di moderare la conferenza stampa di Wes Craven in Italia per la presentazione di uno dei suoi ultimi film intitolato [i]Red Eye. Questa è l’intervista in cui Craven dimostrò ancora una volta di essere un grande genio del cinema che ci mancherà molto.
Un ricordo attraverso le se stesse parole del regista della saga di Scream e Nightmare.[/i]


L’horror è la realtà ridotta ad un livello più piccolo

Intervista a Wes Craven

Di Marco Spagnoli @marco_spagnoli

Wes Craven è – senza ombra di dubbio – uno dei registi horror più amati e stimati di sempre. Film come Scream e Nightmare sono entrati nell’immaginario collettivo ancora prima che negli incubi di generazioni differenti di cinefili e di appassionati.

All’età di sessantasei anni, Craven, regista e produttore, continua a lavorare nella Hollywood abitata dai mostri del marketing e dagli sgherri di Corporations che chiamano un film ‘prodotto’ e che di cinema non hanno visto nulla o quasi. Una lotta quotidiana non facile che – a distanza di poco tempo – ha portato alla nascita di due pellicole diverse: Cursed e l’ultimo Red Eye in cui l’autore ha distillato le suggestioni dolorose e inquietanti dell’11 settembre.

Red Eye: perché questo titolo?

E’ in riferimento agli occhi arrossati dei passeggeri di un volo da Los Angeles a New York che viene preso da persone dell’industria del cinema. Dopo avere lavorato tutto il giorno e cenato a casa loro, questi executives prendono un volo notturno da L.A. e arrivano in tempo per lavorare a New York. Ovviamente alla fine perdi molto sonno… Nessuno di noi aveva realizzato che sarebbe stato scarsamente compreso al di fuori dell’industria del cinema. A dire la verità non avevo alcuna voglia di fare un altro film quando mi è arrivata la sceneggiatura di Red Eye. Poi, però, leggendola mi sono accorto della sua grande qualità e interesse. Per me era divertente potere lavorare ad un thriller interamente ambientato su un aereo dove i due protagonisti – per la maggior parte del tempo – si trovano praticamente seduti uno accanto all’altra senza fare molto altro. Un mio amico musicista mi ricordava che questa sceneggiatura poteva esprimere visivamente il concetto di musica da camera. La più difficile per qualsiasi gruppo di orchestrali, perché se uno sbaglia, tutti gli altri restano fregati da questo errore. Così è la situazione sull’aereo: la protagonista non può alzarsi, non può scappare, non può chiedere aiuto. Quello che per me rappresentava la sfida era proprio questo: domandarmi se ero in grado di mantenere fermi sulle loro sedie gli spettatori agendo solo su tre o quattro personaggi senza rovinare nulla e senza – soprattutto – commettere alcun errore. L’aereo è un po’ un distillatore delle caratteristiche principali dei personaggi. Abbiamo girato la pellicola molto velocemente in modo da uscire nei cinema prima di Flightplan con Jodie Foster. Il risultato di questa velocità di lavorazione è che il film è molto breve, veloce, compatto ed elegante. Ha un ottimo ritmo.

La maggior parte dei suoi film termina in una casa o comunque in uno spazio chiuso…

Perché un’abitazione è un po’ il simbolo delle persone che ci vivono e di quello che sono. Per me è un po’ l’equivalente di un corpo e di una mente combinati in un unico luogo fisico. Per me è uno spazio molto evocativo e potente.

Perché anche in Red Eye le donne sono le principali protagoniste dei suoi film?

Non è insolito. Arriva già dall’epoca del cinema muto. Anche di recente pellicole come The Ring, The Grudge e The Eye vanno in questa direzione, mostrando donne vulnerabili. James Cameron, però, con la saga di Terminator ha dimostrato come questi personaggi possono evolvere. Basta pensare a Linda Hamilton come è nel secondo film rispetto al primo in cui è una ragazza in pericolo. La vediamo con dei muscoli enormi mentre fa ginnastica sulle sbarre di una prigione. E’ completamente trasformata. Personalmente adoro le donne. Sono figlio di una donna rimasta vedova quando avevo solo quattro anni e so rendermi bene conto di quale sia la forza delle donne nella vita di tutti i giorni. Oltre questa motivazione personale c’è una considerazione riguardo al fatto che oggi le donne stanno conquistando la parità dei sessi: sono forti, hanno potere e hanno conquistato l’accettazione da parte di tutti. C’è voluto del tempo per raggiungere l’uguaglianza. Da qualche parte del mondo ancora non si è realizzata, ma arriverà. Ed è qualcosa di unico rispetto alla nostra epoca. Siamo testimoni di un processo senza precedenti. In più c’è il concetto classico della ‘damigella in pericolo’. Le donne tendono ad essere fisicamente più deboli degli uomini e questo è stato ampiamente sfruttato dal cinema e dalla letteratura. Non so ancora per quanto visto che questo stato di cose non durerà ancora a lungo dato che le donne sono atleticamente e fisicamente all’altezza degli uomini stessi.

Dirigerebbe un horror giapponese?

Sì. Qualche tempo fa ero pronto a realizzare Pulse ispirato al giapponese Akira, ma – solo cinque giorni prima delle riprese – gli Studios hanno dato uno stop alla produzione. Avevo scritto anche la sceneggiatura. Oggi, però, non lo rifarei, perché tutti fanno film del genere e io odio fare quello che fanno gli altri. E’ diventata una moda…

Lei ha abbandonato le maschere di Scream e di Nightmare…

Credo interessante che il protagonista maschile indossi una maschera emotiva per tutta la prima parte del film facendo finta di essere una persona normale. Questa pellicola ha a che fare con quello che è una maschera è in senso astratto. Puoi continuare a raschiare via delle maschere e per la maggior parte del film questo è concentrato su chi sono veramente le persone che commettono atti di terrorismo. In più ci sono altre maschere che vengono tolte anche da lei. Anche quella della vulnerabilità che viene tolta per fare posto a quella della forza interiore della protagonista femminile.
Come spiega il fatto che in un’epoca piena di orrori reali, l’horror abbia così tanto successo dal punto di vista cinematografico, anche più che in passato?
Gli horror parlano sempre della realtà delle cose. Sia che queste accadano soltanto nella mente delle persone, sia che al di fuori. Sono una loro distillazione: sebbene più piccole e astratte riguardano fortemente il nostro mondo. Sono solo un’altra maniera per parlarne. Red Eye riguarda il terrorismo. E’ una sua astrazione che analizza come questo dramma possa entrare nella vita di una giovane donna assolutamente per caso.
L’horror è la realtà ridotta ad un livello più piccolo. Io ho cominciato a fare film del genere proprio per questo motivo. Ero sconvolto da quello che vedevo accadere nel mondo e per questo ho iniziato a fare dei film horror. E’ un genere che ha successo, perché è uno specchio delle nostre vite in maniera differente.

Ha dato vita a tante figure iconiche del genere horror. Come ci è riuscito?

Non saprei dirlo. E’ un po’ come tentare di prendere i fulmini con una bottiglia. Succede, ma non sempre. Non è qualcosa che puoi prevedere. Quando ho girato Sotto shock – Shocker pensavo che Horace Pinker sarebbe diventato popolare come Freddy Kruger cosa che non è avvenuta. Ci sono dei momenti in cui credi di avere dato vita a dei personaggi potenti, e invece ti sbagli. Altre volte, invece, sei sorpreso da come le persone reagiscono al tuo lavoro. Anche quando succede non sai proprio come spiegartelo. Il mio timore è che – svegliandomi un giorno – mi accorga di non essere più in grado di farlo. Sinceramente è una di quelle cose che non capisci del tutto come avvengano e perché…

Qual è la sua più grande paura?

Almeno il cinquanta per cento delle persone oggi non sono affatto contente di quello che sta diventando il nostro governo oggi. Sfortunatamente non indossano nemmeno delle maschere. Sono esattamente quello che mostrano essere. Nel mio cinema personalmente sono stato sempre interessato nell’affrontare il mito della famiglia americana felice e contenta dove tutti hanno successo. Credo che tutti i paesi indossino una maschera. Qualcuna è peggiore di altre come nel caso dell’America. Credo che sia ancora un grande paese, perché la maggior parte delle persone sono della brava gente. I suoi governanti no. La mia più grande paura? Beh, può scrivere che ha un nome e un cognome: George W. Bush. Grazie al cielo resterà lì solo per altri tre anni!

Cosa è cambiato dagli inizi per il suo cinema?

Sono invecchiato. Oggi comprendo meglio il mio lavoro e il metodo per lasciare il pubblico senza fiato nel vedere un mio film. Forse sono diventato un po’ più compassionevole e sofisticato. In Red Eye, per esempio, ero più interessato a mostrare la paura psicologica anziché quella fisica. Non è un film sul terrorismo o sugli aeroplani, ma riguarda la battaglia dei sessi, il confronto tra maschile e femminile. Credo che non avrei mai potuto fare un film del genere da giovane. Oggi comprendo tutto quanto meglio ad un livello sottile più psicologico. E’ stato un piacere fare un film del genere con un ritmo forte ed incalzante. Sono cambiato, perché forse sono più accomodante nei confronti della vita. Una delle ironie della mia vita è quella di essere cresciuto in una religione che vietasse alle persone di andare al cinema. Fino ai miei vent’anni non avevo mai visto un film e così ho molte lacune nella mia conoscenza del cinema che, poi, è diventato di fatto la mia vita.

Come è il suo rapporto con Hollywood, oggi?

E’ qualcosa che mi confonde sempre e mi lascia perplesso. Cursed è un film che è durato per due anni e mezzo. Abbiamo girato per undici settimane. Ci hanno fermato eppoi abbiamo riscritto la sceneggiatura per cinque mesi prima di tornare sul set. Abbiamo buttato tutto il girato via, senza un vero motivo. Siamo tornati sul set e – alla fine – la lavorazione è durata per tre anni! Tre anni della mia vita per una pellicola che – alla fine – ha guadagnato in tutto il mondo appena ventotto milioni di dollari.

D’altra parte quando la DreamWorks mi ha chiesto di dirigere Red Eye ci ho messo solo cinque mesi e mezzo. Tutti erano contenti. Nessuno mi ha domandato nulla e – alla fine –erano molto soddisfatti. Oggi Hollywood è tormentata dalla combinazione di due cose molto pericolose. Da un lato gli Studios credono di essere tutti dei cineasti e quindi interferiscono continuamente nel processo creativo. D’altro canto gli Studios considerano il cinema solo ed esclusivamente come un business. Pensano solo a fare soldi perdendo di vista l’elemento creativo che – alla fine dei conti – è quello che porta le persone al cinema. Temono le cause degli avvocati e sono terrorizzati dal politicamente corretto.

In che senso?

L’Horror pur essendo un genere che fa guadagnare esplora direzione dove sarebbe meglio non dirigersi. L’Horror ha a che fare con cose che non sono di buon gusto e che non mettono a proprio agio i benpensanti e la destra conservatrice che oggi domina l’America. In un certo senso, quindi, il nostro lavoro è antitetico rispetto a quello che intendono fare le Corporations che governano il mondo del cinema tramite gli Studios. A noi viene chiesto di realizzare prodotti sicuri che facciano incassare, magari inventando qualcosa che possa essere facilmente duplicato da altri. Anche se uno si oppone a questa visione, questa è diventata l’ideologia dominante del mondo del cinema. Qualche tempo fa ho incontrato ad una riunione un rappresentante di un’associazione di consumatori cristiani. Mi ha guardato e mi ha detto: “Per me il cinema è un prodotto. Così come farei per una bibita o una merendina, se so che un suo film può danneggiare psicologicamente i miei figli io sono pronto a fare causa allo Studio che la distribuisce e a lei stesso. Lei non ha alcun diritto di fare del male ai miei bambini!” Questo è il pensiero dominante in America oggi. Si cerca di fare del cinema in grado di accontentare queste persone.

Come?

Facendo dei pessimi film insipidi e senza capo né coda, ma anche in maniere più pratiche. E’ stato inventato per i Mormoni uno strumento chiamato masking che censura automaticamente le scene più violente e crude. Queste persone non vanno più al cinema. Affittano i Dvd, li mettono nel ‘masking’ che censura tutto quello che questa gente non vuole vedere. Noi registi ci siamo opposti, ma – sorpresa, sorpresa! – abbiamo perso la causa. Alla fine – sullo schermo – si vede una versione modificata del nostro lavoro. Un’assurdità e una vergogna, mentre qualcuno pensa di fare vendere questo strumento di censura nelle grandi catene come Blockbuster.
E’ un po’ la metafora del nostro lavoro: un artista ha grandi difficoltà a fare in modo che il suo film non venga cambiato e trasformato. Quello che il pubblico vede è una versione sanitarizzata del nostro cinema.
Perché la gente dovrebbe pagare per autocensurarsi?
Perché l’idea in America oggi è che le persone devono controllare tutto e che l’arte è pericolosa. Del resto il cinema non è arte. L’arte è qualcosa di rassicurante come i quadri di quel pittore che dipinge casette rosa al tramonto con delle belle tendine alle finestre. Munch e il suo ‘L’urlo’ rappresenta, invece, la contronatura. Questa gente vuole solo migliorare il nostro mondo. L’equazione è ‘se qualcosa è disturbante’ è anche sbagliata.

Come si arriva a tutto questo?

Con degli eufemismi: nessuno mi dice: “Nascondi il sangue”, ma mi scrivono un appunto che mi arriva tramite la loro segretaria con su scritto: “Abbassa il livello dell’intensità della scena…” Sono molto gentili e ti approcciano in maniera amichevole dicendoti: “Vogliamo solo aiutarti a fare il tuo cinema.” E’ una pazzia!

Il nemico del cinema e del box office è la mancanza di originalità. L’amore dei soldi e non quello dei film è quello che sta facendo del male a tutta l’industria cinematografica.

E’ pessimista?

No, perché è proprio in momenti del genere che qualcuno fa una mossa coraggiosa ed originale in grado di cambiare la situazione. Certo oggi non è un momento facile per lavorare a Hollywood.

Nemmeno per Wes Craven?

Soprattutto per persone come Wes Craven…




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