Alcune sedie cadute, capovolte, intrecciate, quattro lampadine pendule, un muro bianco come fondale – questa la nuda scenografia che appare allo spettatore dello spettacolo “Evviva Maria: i moti di Reggio Calabria del 1970 e l’assassinio di 5 anarchici,” scritto da Ulderico Pesce e interpretato da Lara Chiellino, che mette in scena una delle pagine più torbide della nostra storia recente, i dimenticati moti di Reggio Calabria del 1970, la strage di Gioia Tauro, l’assassinio di cinque anarchici che avevano raccolto prove scottanti sui poteri e i personaggi che agivano nell’ombra, autori della cosiddetta strategia della tensione che ha insanguinato per anni il nostro Paese.
Sola davanti al pubblico, dotata d’una voce carnosa e coinvolgente, circondata dai pochi oggetti muti che sposta e manipola con sapienza accordandoli visivamente al racconto, Lara Chiellino interpreta una donna, Pina, che nei sanguinosi eventi della rivolta che sconvolse Reggio Calabria nei lunghi mesi del 1970 ha perso il promesso sposo alla vigilia delle nozze, ammazzato dalla polizia. È una storia vera, il giovane si chiamava Carmine Iaconis e fu l’ultima vittima di quei sanguinosi eventi.
Come sempre nel teatro di Ulderico Pesce, le vicende private si avvinghiano come in una lotta disperata agli eventi storici e ai drammi d’una nazione, rimanendone sconvolte, distrutte, monche di senso. Quel senso che pure furiosamente, con accanimento tormentato, chi rimane in vita cerca nel ricordo, con la ferrea volontà civile ed umana di mai dimenticare, di ricostruire e tramandare i percorsi tortuosi e misteriosi della storia, in cerca di una giustizia sempre negata da uno Stato assente, colluso, imperscrutabile. Anche in questo spettacolo siamo quindi nel cuore della poetica civile di Ulderico Pesce, nella sua opera di denuncia e di recupero della memoria – caso alquanto raro nel panorama teatrale italiano fatto per lo più di stracche commediole, di rappresentazioni patinate o di stucchevoli riproposizioni di classici.
La Chiellino è sul palcoscenico sola con la sua voce, con la sua mimica accorta, mai palesemente melodrammatica, con la sua espressività misurata, ammirevolmente calata nei panni di donna del popolo sconvolta dagli incomprensibili moti della storia, che cerca di comprendere gli avvenimenti più grandi di lei che stanno sconvolgendo una città, una regione, un’intera tradizione millenaria. Un personaggio che incarna la memoria storica, che si fa eco del riscatto sociale della sua terra usurpata, del desiderio di verità e di giustizia, della speranza sempre negata, che nel ricordo e nella denuncia rielabora i fatti divenendo una persona nuova, matura, consapevole.
Il suo racconto, veemente e carico di dignità, è narrato con una lingua piana e incisiva, un monologo misurato e lucido, risonante di accenti vernacolari che lo ornano di immagini conferendo chiarezza e sintesi. Una lingua dalla marcata matrice etnica che arriva dritta al cuore, senza infingimenti, “recitata” con naturalezza estrema e vigore interpretativo. In alcuni momenti a quella voce si aggiungono delle immagini di repertorio, proiettate sul fondale bianco, ma che appaiono quasi superflue, vista la straordinaria capacità di evocazione della parola, della dizione.
E dopo un’ora ecco raggiunto l’effetto: alla commozione umana suscitata dagli eventi portati in scena, si accompagna l’indignazione e lo sconcerto di chi vuole sentirsi ancora cittadino, e si ritrova a fare i conti con uno Stato bugiardo e ipocrita, negatore di giustizia e falsificatore di verità, infiltrato da elementi massonici e mafiosi, in balia di derive fasciste, di potentati economici e politici che hanno strangolato il Paese mantenendolo in un perpetuo medioevo. Insomma, ancora una tappa preziosa nel colto teatro di ricerca e di memoria storica portato avanti da Ulderico Pesce.
In programmazione al teatro “Lo spazio” di Roma sino al 17 marzo.
Abbiamo incontrato Ulderico Pesce, e ne abbiamo approfittato per ricostruire brevemente la formazione intellettuale e il percorso artistico di una figura teatrale atipica nel panorama italiano, e naturalmente per parlare dello spettacolo che sta portando in scena.
Come nasce l’idea di questo spettacolo?
La scintilla è il mio interesse per ciò che è accaduto in Italia dal dopoguerra. Mi sono sempre chiesto come si ricostruisce l’Italia dal 1946 in poi, qual è il rapporto con i Partigiani, con le grandi potenze che ci hanno aiutato a liberarci, qual è il rapporto tra i partici politici nascenti e gli americani, i loro servizi segreti. Ho sempre avuto il sentore che la nostra non sia una nazione del tutto libera, autonoma nei suoi presupposti legislativi, economici, militari, e questo sentore mi ha spinto a cercare, anni di ricerca e vari spettacoli con i quali ho tentato di rispondere a questa domanda interiore, cioè in che razza di Paese viviamo, se in una nazione libera, in cui votiamo un partito che ci governa, oppure se esistono dei poteri forti che in qualche modo orientano il presente e il futuro dell’Italia a prescindere della volontà popolare. Il mio teatro è la ricerca di questa risposta, e tra gli spettacoli che mi hanno aiutato a dare una risposta a questa domanda c’è “Evviva Maria e i moti di Reggio Calabria”. Perché nel 1968-70, subito dopo le grandi manifestazioni e i moti popolari dei giovani italiani si è radicata in Italia la destra, la destra terroristica, erede della Decima Mas di Valerio Junio Borghese, cioè la destra fascista che si era alleata con Hitler. E in quegli anni avviene che la destra fascista in qualche modo entra nella Democrazia cristiana, nella P2, e orienta il futuro dell’Italia, futuro che ancora oggi è guidato da forze occulte. E quei fatti di Reggio Calabria sono il primo motore che porta la destra italiana ad occupare spazi di potere molto ampi, dietro di essi si preparano le grandi stragi italiane, stragi che servono a ricompattare il governo conservatore.
Mi ha molto incuriosito il lavoro fatto sulla lingua: chiara, con accenti vernacolari che determinano profondità e al tempo stesso semplicità espressiva. C’è qualche riferimento esplicito, il ricorso consapevole ad una qualche fonte dietro questa scrittura?
Ho scelto un’attrice calabrese perché questa storia non può essere raccontata in italiano, deve avere una matrice etnica molto forte. Nel contempo, mi è piaciuto molto ricordarmi di Corrado Alvaro. Corrado Alvaro è calabrese, ma la sua scrittura è atipica per il sud d’Italia, perché scrive per flussi di coscienza. Ho recuperato anche Giuseppe Berto, entrambi hanno adottato come tecnica di racconto il flusso di coscienza. Questa cosa mi è piaciuta molto, perché nel caso specifico della Calabria acquista come una matrice in più. Ho tratto molto da Il male oscuro, usando quella tecnica di scrittura e trapiantandola in Calabria, nel sud d’Italia, per farla diventare un fatto ancestrale. Qui il flusso di coscienza vuole recuperare tutta l’arcaicità, e mi è piaciuto che la protagonista, Pina, in qualche modo diventi la memoria storica di fatti relativi al desiderio di riscatto sociale del sud, al desiderio di verità, di bloccare le forze eversive. Pina esiste realmente, non è un personaggio inventato, l’ho rintracciata, è la donna che doveva sposare Carmine Iaconis, l’ultimo morto della rivolta di Reggio.
Una domanda che esula dallo spettacolo, ma credo che ti coinvolga in quanto lucano, su Matera capitale europea della cultura. Pensi che questo evento porterà dei risultati concreti all’arte, alla cultura del territorio lucano, o sarà come spesso accade in tali casi una semplice vetrina per i politici di turno, occasione di affarismi? Che sensazioni hai?
Allora, io sono dentro il progetto, in quanto vincitore di un bando con il Centro Mediterraneo delle Arti, quindi parlare da dentro è sempre un po’ complesso. In linea di massima dico che è un’occasione molto grossa, siamo arrivati con grande ritardo al traguardo, e mi piacerebbe che ciò che si dovrebbe fare solo nel 2019 fosse almeno triennalizzato. Siamo in ritardo da un punto di vista delle infrastrutture, visto che a Matera non c’è il treno, ci sono tanti disagi per arrivarci, la Basilicata è scarsa di infrastrutture. Il ritardo è anche nelle strutture culturali, pensa che una città come Matera non ha un teatro pubblico. Tutto ciò è dovuto a molte cause contingenti, ma proprio per questo mi piacerebbe che lo Stato, l’Europa, ci desse un’opportunità in più, cioè invece di finire tutto il 31 dicembre del 2019, vorrei che questo progetto fosse triennalizzato, perché è un’occasione unica per la mia terra, che è una terra dalla grande storia, dai grandi paesaggi. Con più tempo si potrebbe avere un rilancio culturale della nostra terra, un rilancio di tutte le imprese culturali. Se tutto finisce nel 2019, malgrado stiamo facendo del nostro meglio, non si modificherà l’assetto dell’arretratezza culturale attuale.
Hai spesso raccontato che tuo nonno faceva l’arrotino, era socialista e girava il sud Italia “molando” coltelli e raccontando storie di soprusi e di violenze; tuo padre invece è stato un sindacalista che assisteva i braccianti agricoli: è questa l’origine della dimensione spiccatamente etica del tuo teatro?
Credo di sì, perché mio nonno era una persona molto umile, come il mio bisnonno, erano arrotini, e raccontavano storie, ed erano tutte storie contro il duce, di braccianti rivoluzionari, quindi era una matrice politica molto forte, anche se non intellettualistica, era connotata da un’empatia, una semplicità. Mio papà invece era il segretario della Camera del lavoro della CGIL di un paesino della Basilicata che si chiama Lauria. Io ho frequentato la Camera del lavoro, per me è stata come un’università. Vedevo l’impegno, le lotte sociali, i soprusi, vedevo braccianti agricoli, analfabeti, sempre persone altamente ardite. Insomma l’esperienza di mio padre mi avrà sicuramente influenzato. Poi ho frequentato il liceo classico, anche questa è stata una cosa determinante, al classico si studia un teatro, quello della Grecia antica, che è tutto di natura sociale, quei testi si occupano di Atene, della democrazia, del rapporto con la divinità, con chi governa, delle leggi scritte, di come vivere in società, la funzione della giustizia. Poi all’università ho studiato drammaturgia antica, insomma tutto questo ha influenzato la mia esistenza, la visione delle cose, e quando ho cominciato a fare teatro per conto mio evidentemente tutto ciò ha avuto un peso.
Oltre a ciò, io noto nel tuo modo di fare teatro una naturale, forte indignazione verso il sopruso, lo sfruttamento, la violenza perpetrata dai forti sui deboli.
Sì, anche questo mi viene dalla famiglia, prevalentemente da mio padre, che è stato sempre molto, molto attivo da questo punto di vista. Forte, determinato, un combattente. Diciamo sono cresciuto tra scioperi, lotte sindacali, referendum a favore dell’aborto, a favore del divorzio. Sai, uno non nasce in un certo modo, credo che sia la cultura di un luogo, di un ambiente ad influenzarti. Nel mio caso è proprio una vocazione familiare.
Che influenza hanno avuto sulla tua formazione artistica poeti e scrittori lucani come Albino Pierro e Rocco Scotellaro?
Certamente molta. Non tanto Albino Pierro, che si occupa di tematiche meno sociali: paesaggi, mondo etnico, rapporto padre-figlio, diciamo che Albino Pierro non è un poeta dalla vocazione sociale spiccata, invece Scotellaro e Carlo Levi hanno una vocazione sociale molto forte e credo che loro due mi abbiano influenzato molto. Tieni presente che quando ero giovane e ho cominciato a fare questo lavoro mi ha influenzato molto Amelia Rosselli, la figlia di Carlo Rosselli ucciso dai fascisti nel 1937, e fidanzata di Rocco Scotellaro. È stata una mia grande amica, è venuta in Basilicata con me tante volte, e quindi anche questo avrà avuto un’influenza sulla mia formazione.
Lavori molto ad un teatro edificato sulla memoria: raccogli testimonianze, scrivi e reciti storie “vere”. Perché è così importante non dimenticare?
Perché è la chiave del futuro. Un luogo che non ha identità, che non ha memoria non ha futuro. Il recupero della memoria è tutto. Ti faccio un esempio. Tempo fa il Grande Fratello è stato mandato in onda in concomitanza di un approfondimento sulla vicenda Moro, e negli ascolti il Grande Fratello ha battuto Moro. E allora, sino a quando costruiremo un mondo simile il futuro non esiste. Se il Grande Fratello ottiene più ascolti dell’approfondimento sul caso Moro significa che l’Italia non esisterà.
In cosa si differenzia il tuo teatro politico, se si differenzia, da quello di Paolini o Celestini?
Si differenzia molto. I citati sono molto bravi, ma fanno un teatro di narrazione. Il mio è un teatro di personaggi, a raccontare la storia è un personaggio vero e proprio, non ritengo di fare un teatro di narrazione. È piuttosto un teatro tradizionale con dei personaggi veri e propri. Non c’è la terza persona che narra, ma una prima persona che ha una qualche attinenza nella sua vita con la storia che racconta. Quindi il teatro di narrazione è tutt’altra cosa.
Hai sempre scritto e messo in scena storie incentrate su temi “caldi” come le scorie nucleari, le tremende condizioni di vita dei clandestini, i traffici illeciti di rifiuti, i moti di Reggio Calabria, l’amianto, e così via. Questo lavorare su temi forti, di stringente attualità, ti ha procurato dei fastidi? Qualcuno ti rende la vita difficile?
Eh, be’, sicuramente, tieni presente che sono stato un anno sotto scorta, un anno intero. Mi hanno sfasciato due volte la macchina, tanto che il Questore decise di mettermi sotto scorta. L’anno che ero sotto protezione la Digos veniva a filmare lo spettacolo, sia quello che dicevo che le persone presenti. Non è stato facile.
Come si configura il ruolo dell’artista in questa realtà? Si è modificato, si modificherà? Tu come lo vivi?
Io credo che noi artisti non serviamo a niente. Noi – o almeno io – non incidiamo minimamente sulla realtà, quello dell’artista è un ruolo che ha perso centralità. Un tempo non era così. Un tempo l’artista era considerato un folle di cui la società aveva necessità, oggi l’artista non è considerato, non c’è. Non sappiamo neppure se siamo artisti, oggi non esiste un mercato che ti fa capire che lo sei. Tu fai delle cose e basta, la gente vede lo spettacolo e finisce lì. Un tempo c’era la critica, c’erano le università che si occupavano di capire l’andamento della cultura, del teatro, del cinema, oggi è tutta una finzione.
Insomma in questo panorama il futuro del teatro in Italia non è roseo.
Innanzitutto il presente del teatro non è roseo. Perché la maggior parte del teatro italiano si regge sugli scambi. Funziona così: quelli di Milano vanno a vedere gli spettacoli a Roma, e quelli di Roma vanno a vedere quelli di Milano. Quelli di Milano vanno a Genova, quelli di Genova vengono a Milano. Cioè è uno scambio, e i finanziamenti funzionano su questi scambi di produzioni. Quindi gli abbonati d’Italia s’imboniscono di spettacoli che sono scambi, e questo impedisce a tante compagnie, compresa la mia, di accedere alle grandi stagioni nei grandi teatri, perché io non ho nulla da scambiare. Posso ospitarli in Basilicata per mangiare la salsiccia, il formaggio buono. È una cosa molto triste. Ecco perché è morto il teatro.
Però ci sono delle realtà vitali, che vivono al di fuori dei grandi circuiti, come la tua.
Ci sono tante piccole realtà soprattutto in periferia, che vivono bene, con pochi, pochissimi finanziamenti pubblici, persino senza, e sono realtà serie, che producono e gestiscono le cose. Ci sono invece tante altre realtà superfinanziate che non producono nulla, producono il vuoto, come la televisione senza tubo catodico, e fanno danni, tanto che a teatro non va più nessuno. Per vedere dei ragazzi a teatro bisogna pagarli.