di Chiara D’Ambros
Teatro Nazionale, Roma. Nella scena nera e spoglia si dischiude la luminosa sala regale. Il trono avanza fino al centro del palcoscenico a dominare lo spazio. Subito dopo il Re sale in alto sul fondo del palcoscenico, dove tutto domina e assiste al primo dei vari conflitti attorno cui si svolge tutto lo spettacolo. Interno-esterno, alto-basso sono dimensioni spaziali che rispecchiano quelle esteriori e interiori, sociali e intime e che vengono attraversate, e a tratti sviscerate, in questo nuovo lavoro che vede la regia di Peter Stein, del testo di William Shakespeare, prodotto dal Teatro Metastasio di Prato, con le scene di Ferdinand Woegerbauer, i costumi di Anna Maria Heinreichluci, le luci di Roberto Innocenti.
Subito temi e toni propri della cultura cavalleresca si impongono: la sfida per la difesa dell’onore, l’indiscusso potere temporale e divino del Re, un intreccio di legami familiari tra potenti. Macrotemi in cui la psicologia dei personaggi si manifesta con affilata lucidità, elevandoli all’universale.
Richard II, interpretato da Maddalena Crippa con efficacia, misura e rigore, tiene stretto il nodo del potere mentre e finché gli si disfa completamente tra le mani. Si scioglie a causa della sua tracotanza, dalla sua impreparazione, e a causa dalle mani fedifraghe di alcuni suoi stessi fedelissimi, uno su tutti il duca di York, Gianluigi Fogacci degno di nota per la sua interpretazione.
I traditori, che arrivano ad essere tali non senza conflittualità, sono vestiti rigorosamente con toni scuri e sembrano rappresentare quella forza oscura, competente, che si insinua e circonda il potere visibile, si nutre di questa vicinanza e interviene affinché il proprio potere sotterraneo rimanga indiscusso. Emblematico, a questo proposito, lo scambio iniziale in cui Re Richard II afferma : “I leoni ammansiscono i leopardi” cui Mawbrai risponde “Ma i leopardi non perdono le macchie”.
Il fitto intreccio relazionale dei personaggi si dispiega nell’acuto dramma shakespereano, proposto nella raffinata traduzione di Alessandro Serpieri, tagliente e senza sconti per l’attenzione degli spettatori, ma in cui ci si immerge grazie ad una orchestrazione recitativa precisa, scandita ma non per questo artificiosa. Non l’azione ma la parola domina e conduce nelle profondità del testo, poco rappresentato al giorno d’oggi, “mentre al tempo di Shakespeare e della Regina Elisabetta I era rappresentato di frequente. La regina stessa lo conosceva bene, tanto che c’è un documento in cui dice: “Riccardo II sono io”” cit. Maddalena Crippa.
L’opera racchiude una modernità spiazzante, che si svela nel monologo finale di Richard. Non più re, condannato e rinchiuso in una cella fisica ma soprattutto mentale, si esprime in tutta la sua umanità.
La dimensione emotiva e l’ “essere inconsueto” di questo personaggio è stato tra gli elementi che hanno portato Stein a scegliere una donna per interpretarlo. Maddalena
Crippa, incontrata per ascoltare un punto di vista al cuore dello spettacolo, spiega la centralità di questa dimensione umana per la sua interpretazione:
“All’inizio ho avuto molte difficoltà, poi ho capito nelle repliche e nelle prove che io non devo fare l’uomo, perché se avessi dovuto fare l’uomo dall’esterno, sarebbe stato sempre perdente. Ho capito che dovevo giocare invece l’essere umano. Devo essere io come sono, usare ovviamente i toni bassi della voce ma basta, non c’è bisogno di forzare una mascolinità esteriore. La cosa più difficile è riuscire ad esprimere questa grande emotività dentro quella lingua, rispettando quella retorica che è come un corsetto che non puoi permetterti di spezzare. Non puoi, per esempio, fare delle pause a tuo piacimento. Shakespeare esprime con tanta raffinatezza cosa avviene dell’animo umano che non c’è fine alla scoperta.”
Nell’incontro con Maddalena Crippa, abbiamo parlato anche del momento cruciale dell’intreccio che si compie nel IV atto. Qui si assiste al primo e unico momento in cui il silenzio di una pausa si impone prorompente. La scena è affollata, Richard II dovrebbe incoronare Hanry Bolinbroke interpretato da Alessandro Averone, il silenzio apre uno squarcio nella dimensione interiore di Richard, che si dibatte con se stesso e di sé si sveste contraddicendo le sue stesse parole, pronunciate all’inizio, profanando i suoi occhi di pianto.
Dice Maddalena Crippa:
“Per me questo è il punto chiave, perché in questo caso lui non recita, qui accade qualcosa di più profondo. E’ molto cristologica la cosa. Lui è capace di spogliarsi di tutto, di accettare questo destino e facendolo, vive un’esperienza della coscienza inaudita. Ha un coraggio da leone. Non subisce, è lui stesso a destituirsi. E’ un’esperienza straziante, perché capisce tutto l’errore in cui è vissuto, come ha sprecato la sua esistenza . Capirà poi in carcere questo essere nulla. Tutti siamo qualcosa, abbiamo un ruolo, ci riconosciamo in questo ruolo o quel ruolo … saremo disposti a toglierci tutto questo? “
Anche nonostante la presenza del Vescovo di Carlisle, interpretato brillantemente da Graziano Piazza, a ricordagli fino alla fine la sua sacralità, in Re Richard II la dimensione dell’ essere umano prevale, anche nell’inseguire la saggezza senza poterla mai raggiungere se non, forse, quando si trova davanti allo specchio e lo rompe di suo pugno infrangendo così anche l’idea di sé che doveva proteggere, il ruolo che lo difendeva dal suo comportamento dissoluto. Spogliato di tutto, rimane solo con il coraggio di affrontare le sue debolezze. Il nulla, la fragilità che può far riconoscere l’essenza delle cose, fa paura al potere. La scomoda e minacciosa essenza deve morire.
Grazie al veleno sopravvive quel potere che fa comodo a tanti.