Veronica Cruciani: il mio impegno per un teatro vivo e vitale | Giornale dello Spettacolo
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Veronica Cruciani: il mio impegno per un teatro vivo e vitale

In tournée con Due donne che ballano e Preamleto, la regista e attrice romana mette in scena la drammaturgia contemporanea, sfidando il mercato. [Nicole Jallin]

Veronica Cruciani: il mio impegno per un teatro vivo e vitale
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9 Dicembre 2015 - 09.13


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di Nicole Jallin

È una delle registe più influenti del teatro contemporaneo italiano. Con un passato d’attrice, diplomata alla Paolo Grassi, recentemente al cinema con Viva la sposa di Ascanio Celestini (la cui collaborazione prosegue da oltre dieci anni), l’artista capitolina, attenta alla formazione attoriale, cui corrispondono diversi laboratori e docenze, che ha diretto il Teatro Biblioteca Quarticciolo, e che ha fondato la Compagnia Veronica Cruciani, sonda memoria e contemporaneità ascoltando le attuali realtà adagiate nell’ombra, le voci marginali coperte di silenzio dal disinteresse.

Dopo Il ritorno di Sergio Pierattini, La palestra di Giorgio Scianna, e Preamleto di Michele Santeramo, debutterà stasera, mercoledì 9 dicembre 2015, al Teatro Carcano di Milano con il suo nuovo spettacolo Due donne che ballano del catalano Josep Maria Benet I Jornet, prodotto dal Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano, guidando Maria Paiato e Arianna Scommegna nell’incontro tra un’anziana sola lettrice di fumetti e una giovane badante colta e disgraziata, ovvero le protagoniste di un inatteso e magnetico legame relazionale.

Il testo di Benet I Jornet rivela una dinamica quotidiana e apparentemente scontata che unisce le protagoniste. Perché lo ha scelto?

«Voglio raccontare storie nuove, inascoltate, e quindi inedite, che non sempre riesco a incontrare nella drammaturgia contemporanea, italiana e straniera. Spesso leggo personaggi femminili stereotipati, che non contengono quella complessità che appartiene alle donne di oggi. Qui invece ho trovato due donne sorprendenti e imprevedibili: hanno caratteri forti e spigolosi, ironici e intelligenti, che nascondono una purezza innocente e grandi fragilità. E a interpretare, rispettivamente l’anziana e la badante, Maria Paiato e Arianna Scommegna, che la purezza ce l’hanno sia come attrici che come persone. Poi mi ha affascinato il linguaggio, quello proprio del ricordo della prima, fitto e sviscerato, e quello spezzettato, monosillabico, della giovane. La parola diventa eco di due solitudini umane tanto diverse per provenienza ed esperienza, quanto simili per presente intesa inaspettata che s’intreccia in un mistero personale, intimo, e che emerge poco alla volta attraverso il loro rapporto. Un rapporto che prende forma in una casa vuota, scarna, minacciata dal silenzio. Ed è proprio il silenzio che ho voluto sottolineare a ogni atto: un silenzio che trova ispirazione nell’arte di Edward Hopper e che imprime sulla scena il passare del tempo anche per merito delle musiche di Paolo Coletta, delle scene di Barbara Bessi, e delle luci di Gianni Staropoli, che mi hanno aiutato a creare questi veri e propri quadri che trattengono corpi pittorici sui quali è inscritta questa estrema solitudine».

Come avete affrontato, lei e le attrici, il lavoro sul linguaggio?

«Devo premettere che la drammaturgia contemporanea, affidandosi spesso a dialoghi di forte verosimiglianza con la quotidianità, rischia di somigliare a una sceneggiatura. Il lavoro di regia è stato accogliere questa particolare concretezza realistica della parola e portarla in una dimensione alta che si avvicinasse per sensibilità a quella propria della tragedia greca: là dove la vita scenica agisce per contrasto alla quotidianità. In questo testo le due femminilità sono sì reali, e creano sì un legame reale, a noi riconoscibile, ma lo fanno come fossero una Clitemnestra e una Elettra a confronto. Partendo da questa considerazione, il linguaggio che io uso è molto vigoroso e preciso, ed è impresso in corpi statuari ed emotivi ai quali chiedo una presenza scenica forte, imponente; chiedo di essere fonte di verità e autenticità che però mai deve confondersi con la quotidianità. Con le attrici ho voluto tirar fuori in maniera chirurgica i sentimenti e le sfumature sottili mutevoli che ci sono tra le due donne, e che Arianna e Maria a ogni replica restituiscono attraverso la loro stessa vita: in nome di un teatro che io chiamo “vivo e vitale”. Loro, Arianna e Maria, devo dire, portano a termine il difficile compito di trasmettere un’energia e una temperatura emotiva estrema».

Regista e interpreti donne. Cosa significa condividere questo percorso teatrale “al femminile”?

«Il teatro come la vita è fatto di incontri: quello tra noi tre è stato particolarmente felice e questo conta nella finale resa qualitativa dello spettacolo. Ho incontrato due compagne di viaggio speciali, ci tengo a dirlo, sia perché sono due attrici straordinarie, sia perché anche umanamente sono persone che si danno, danno tanto: non si risparmiano, s’immergono senza resistenze né barriere, e anche io sono così. In questo spettacolo siamo partiti da noi, dalla nostra relazione, da quella tra Maria e Arianna e i loro personaggi, e poco per volta il confine tra attore e personaggio si è assottigliato. Posso dire che tutt’e tre abbiamo dato molto di noi stesse in questo progetto; e tutt’e tre siamo accomunate da una grande passione per il nostro lavoro, il che non sempre accade, non è così scontato, anzi succede raramente. Lo sappiamo. Infatti intendiamo continuare a collaborare insieme anche in futuro».

Che importanza ha la drammaturgia contemporanea nel sistema teatrale italiano?

«Ho fatto davvero tanta fatica per entrare in alcuni circuiti teatrali con la drammaturgia contemporanea. In altre città europee, come Londra, è forte la partecipazione civile al teatro contemporaneo, che viene considerato come quello di Shakespeare, come quello classico o tradizionale. Da noi è tutto molto più complicato. In Italia non è facile avanzare proposte di drammaturgia contemporanea perché il mercato, con le sue regole, si è spostato in un’altra direzione. Pertanto sono felice di arrivare a marzo sulla scena di un teatro come l’Argentina di Roma proprio con un testo contemporaneo come il Preamleto di Michele Santeramo, autore che stimo tantissimo, e con il talento di Massimo Foschi, Manuela Mandracchia, Michele Sinisi, Gianni D’Addario e Matteo Sintucci. È un lavoro che nasce da una riflessione sul potere, attorno al quale gravitano i personaggi mossi da meccanismi (anche linguistici) non distanti dalle dinamiche mafiose. Sono tutti non ancora appartenenti ai momenti noti dell’Amleto, con un re non ancora morto che vuole sottrarsi al ruolo di potere, in una futura (e preventiva) prospettiva tragica dell’Amleto. Sono felice di questo risultato perché mi impegno con grande ostinazione – sono molto cocciuta da questo punto di vista – affinché la drammaturgia contemporanea sia popolare, ovvero possa essere offerta, compresa e vista da un pubblico vario e vasto entrando in spazi nuovi, senza rinunciare all’alta qualità. Una qualità rintracciabile in un lavoro di ricerca che va dalla sperimentazione del linguaggio alla scelta del testo, alla scelta degli attori. È importante, è molto importante. Fare un teatro che sia un’alternativa a un sistema produttivo spartiacque tra teatro commerciale e di ricerca, di nicchia. La grande difficoltà sta nel parlare di noi attraverso un teatro vivo, entrare in dialogo col pubblico in un altro modo, con altre forme espressive, nuove, anche scomode, perché no, ma non banali. La scelta del testo e di un autore non è cosa immediata, ma quando si trova un punto di vista originale e inaspettato di trattare tematiche attuali nelle quali viviamo, in me si scatena la volontà di condividere con lo spettatore quel modo di narrare. E credo che Due donne che ballano rappresenti questa volontà: la gente ride, piange, esce turbata da uno spettacolo che suscita emozioni che gli restano attaccate addosso. Poche volte capita di uscire da teatro e sentirsi diversi, commossi, inquieti. Il teatro deve muovere qualcosa dentro di noi, a livello intellettuale e sensoriale».

Un’idea di teatro d’arte popolare che ha coinvolto anche il suo ruolo di direttore artistico al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma.

«La scorsa stagione ho insistito per una programmazione che seguisse questa linea. Ora è uscito il nuovo bando per la gestione del teatro, a cui ho partecipato insieme ad Ascanio Celestini. Siamo in attesa del risultato ufficiale ma, in caso di vittoria, dirigeremo insieme: io mi occuperò della programmazione mentre lui mi affiancherà nell’attività formativa. Dopo la scadenza dei termini di gestione della scorsa stagione, il Quarticciolo ha ospitato eventi e spettacoli organizzati dal Comune di Roma, che ne hanno scongiurato la chiusura. E durante questi mesi abbiamo organizzato “Associazione in Comune”, una maratona di cinque giorni dove, affiancando il Municipio, ci siamo presi il piacere e l’onere di mettere insieme la maggioranza delle associazioni del territorio in un progetto collettivo di laboratori, lezioni e attività molto diverse tra loro. Un altro impegno per evitare la chiusura dei cancelli. Il mio primo laboratorio al Quarticciolo risale al 2007 per cui l’affetto il legame sentimentale che ho con quel luogo mi porta a proseguire un lavoro di coinvolgimento delle realtà locali, nonostante le difficoltà finanziarie e amministrative che le istituzioni riservano alla cultura. Vorrei che questo teatro diventasse una casa per cittadini, spettatori artisti e associazioni, che promuovesse, oltre al cartellone, anche residenze e ospitalità di compagnie, laboratori per professionisti e non, incontri con altre forme d’arte e professioni. Tutto all’insegna della continuità. Perché la chiusura di un teatro, anche se per pochi mesi, rende vano tutto il lavoro di anni. Un teatro ha bisogno di vita, di passione e di cura. Come una casa».

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