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Quando i miraggi dei migranti, e di tutti noi, diventano arte

Uno spettacolo nella notte, nell'alta Brianza, parla dei migranti dei loro immaginari. Attraverso gesto e suono. E la pittura di Alem, artista etiope. [Antonio Cipriani]

Quando i miraggi dei migranti, e di tutti noi, diventano arte
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24 Giugno 2015 - 15.53


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di Antonio Cipriani

Quando l’applauso si spegne, sulla scena resta il dipinto di Alem. Miraggi migranti, così si chiama lo spettacolo. Neanche una parola, più di tanti discorsi, solo figure che si muovono con eleganza e danza sul ritmo musicale. Capita spesso che l’arte parli al cuore e alla testa contemporaneamente, scavi laddove i ragionamenti spesso capziosi, per loro stessa natura, non possono arrivare. Ed è capitato, d’improvviso, nella notte di Campsirago, in quel pezzo di Brianza che si spinge sulle alture attraverso stradine minuscole che a un certo punto si interrompono con una transenna. E che per arrivarci ti devi fare quasi due chilometri a piedi in salita, nella notte più buia, in mezzo al bosco. Un viaggio spirituale: poi scopri che ne valeva la pena.

Si spegne l’applauso, restano l’eco delle azioni e delle percussioni, passaggi e segni che tracciano il viaggio migrante dall’Etiopia al mondo. E che lo disegnano di paure, speranze, nomi di paesi, gioia, soldi e disperazione. Attraverso l’opera d’arte della vita, che si fa aratro, seme e terra da solcare. Pace e furia di sangue, idea di rivolta e sottili domande che si muovono come antichi graffiti sullo spazio libero del narrare, del far crescere nello spettatore la necessità di andare oltre, di accendere domande e precipitare. C’è un abisso che si spalanca dietro il muretto, oltre il dipinto che si staglia all’orizzonte. Non è solo l’abisso dell’emozione, della bellezza che appare lucciola nella notte. È qualcosa di più, che quasi stride dentro il buio profondo che separa Alem, Soledad, Alessandra, Barbara, gli oggetti di scena dal vento, dalla pietra ruvida del paese che si erge come una prua sul mondo di lucette, fabbrichette, stradette, pastette e vedette senza sguardo.

Troppa pianura laggiù e neanche il mare ad agitarne i confini, troppo alti i capannoni, troppo lunghi e tortuosi i centri commerciali. E asmatico il passo, di odori primari che lasciano il posto a rimostranze, a torve quotidianità tagliate col coltello. Diffidenze che tirano su muri laddove basterebbe una finestra spalancata sulla vita.

In cima a quel mondo lontano, sottratta a tutto il resto, c’è la residenza teatrale di Campsirago. E nella notte, perché lo spettacolo è cominciato quasi a mezzanotte, sono apparsi i miraggi migranti, attraverso la bravura scenica di Soledad Nicolazzi, le cui mani hanno raccontato con una perfezione che raramente a teatro si vede la storia di mille migranti in viaggio verso un Nord che respinge, da un Sud che potrebbe nutrire che parte. In un miscuglio di ragioni in cui il gioco dell’assurdo prende il suo spazio con una certa solennità. Dal vivo, coinvolgenti, astratte e sincere le musiche di Alessandra D’Aietti, non prive di una certa vocazione filosofica a un teatro in cui l’impossibile è impossibile. Guerriera, come Barbara Monaco. Lei videomaker e narratrice è l’anello di congiunzione tra questo mondo e tutti noi che oggi siamo qui e dopo aver provato stupore per questo miracolo, lo raccontiamo.

Poi c’è Alem Teklu, che è all’origine del progetto. In scena l’artista, con un buffo cappellino a trattenere i riccioli ribelli, gira con i suoi pennelli, con i colori nella tasca. Disegna l’Italia, poi l’Etiopia, e il Sudan, le partenze, gli aerei, il mare, la terra. Compone lo spazio scenico con una delicatezza e potenza che a un certo punto la storia diventa quel dipinto su fondale nero. Quella l’essenza. La mappa dei cuori tumultuosi, delle storie, dei viaggi si trasforma in un barcone antico di legno che solca il mare col suo carico dolente di uomini stretti l’uno all’altro, con il segno della loro tradizione, dell’origine. Gli appunti di viaggio, o di scena, diventano pennellate veloci, furiose in certi momenti. Un’azione artistica che sovrasta ogni silenzio e ogni altro pensiero.

Quando l’applauso si spegne e gli spettatori se ne vanno, Alem resta seduta incantata a guardare il suo quadro. Poi presa dagli spiriti ardenti della pittura corre di nuovo su, riprende i pennelli. Ricomincia, sola. Non poteva che essere così. Perché il discorso di questo lavoro ha una sua semplicità poetica, una necessità direi, laddove finisce il terreno delle interpretazioni, laddove un che-di-animale spinge l’uomo a scelte drammatiche e assolute, si spalancano le mille altre possibilità di Miraggi migranti, corpi, suoni, pensieri che Alem descrive con la semplicità del tocco del suo pennello. Migranti che partono per un’idea di libertà, per vedere Parigi o Roma, per studiare, per sognare, per dipingere o scolpire, o cantare. Giovani che nel cuore ignorano l’idea razzista del confine che vale per alcuni e non per altri. Che blocca chi viene dal Sud e lascia libero viaggio a chi viene dal Nord, o alle merci sovrane.

Ma lo spettacolo agisce soprattutto sulla zona grigia del fenomeno migranti, ed è qui che colpisce duro, quando con forza scenica parla dell’autonarrazione dell’emigrante che per non ammettere di aver sganciato a mafiosi, trafficanti e personaggi loschi un sacco di soldi in cambio di una vita di dubbi e rischi, per un’esistenza senza libertà e con poca dignità, si finge ricco e felice nel suo paese. Così altri partiranno. Pagheranno, si illuderanno, vivranno il razzismo e la xenofobia che si intrecciano con le regole del mercato e del mondo occidentale. Lasceranno una vita migliore, a dimensione della propria cultura e delle possibilità di farla crescere, di affermare diritti e libertà, possibilità di cambiare il mondo senza abbandonare le proprie origini e la propria terra.

Un bel lavoro, Miraggi migranti, complimenti a Soledad e alle altre. Anche il fatto che sia in fase di costruzione e finisca senza una fine lo rende interessante. Come il dipinto di Alem. Si compone in scena, diventa la storia che le protagoniste raccontano, poi muta in altro. Lascia allo spettatore il viaggio del cuore, stretti sul barcone dell’arte, con l’artista dal cappellino sui riccioli ribelli. Come se non esistesse la pianura piatta di sentimenti e affarucci, e quel barcone ci portasse in un mondo dove la libertà è possibile e non un esercizio di obbedienza a valori dannosi, brutali e dotati di un conformismo alle regole ingiuste del potere da far venire i brividi. Ecco, alla fine di tutto proprio questi brividi, davanti al quadro dei miraggi migranti, mi sono venuti.


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