Marco Buttafuoco
Chi scrive oggi di argomenti storici, ha l’accesso a una quantità, a volte debordante, di fonti filmate e sonore. Parlando di Amalia Rodrigues e della sua importanza per l’anima (una volta tanto, forse, questo termine si può usare senza peccare di retorica) lusitana è quasi normale partire quindi dalle immagini dei telegiornali dell’8 ottobre di vent’anni fa. Amalia era morta due giorni prima, a 79 anni. Lisbona le dette l’addio in una di quelle giornate luminose e terse, tipiche dell’autunno sul Tago.
La sua bara, deposta su un carro scortato da soldati a cavallo e in alta uniforme, attraversò strade affollate di persone piangenti. Persone anziane, per la maggior parte, che forse salutavano un’epoca. Gli altoparlanti trasmettevano le sue canzoni. Nello spezzone che mostriamo, le strade erano inondate di Estranha Forma De Vida, un fado paradigmatico, di cui lei stessa aveva scritto i versi: la storia della lotta eterna fra desiderio e realtà, di un cuore indipendente, che vive straniato e sconfitto dai suoi sogni. Melodramma puro.
Idolo della nazione all’ombra del regime di Salazar
Eppure la fama di questa meravigliosa cantante, dalla bellezza austera eppure carnale (fu anche l’idolo della comunità gay portoghese), aveva vissuto anche momenti di appannamento, soprattutto negli anni precedenti, e in quelli successivi, alla rivoluzione dei garofani. Non furono pochi a rimproverarle di aver costruito la sua carriera, e la sua immagine di idolo della nazione, all’ombra del regime. Non fu forse una taccia del tutto infondata, almeno in termini generali. Alla fine della seconda guerra mondiale paesi come la Spagna e il Portogallo (ma anche la stessa Italia) avevano il problema di ricostruire un’immagine internazionale, spendibile anche in termini turistici. Secondo la cultura dell’opposizione il salazarismo costruì questa immagine tutta ideologica, sulle cosiddette tre effe: fado, Fatima, football (quest’ultimo a partire dagli anni sessanta, in cui spuntò la stella nera di Eusebio). Amalia fu un po’ l’icona, l’ambasciatrice, di questo paese da cartolina, che nascondeva la sua povertà e la sua arretratezza dietro immagini stereotipate. Di questo le chiesero conto molti antifascisti dopo la rivoluzione dei garofani del 1974. Qualcuno la accusò addirittura di essere stata un’agente della Polizia Politica, la famigerata Pide.
Addebiti come sintomi di “schizofrenia politica”
Questi pesanti addebiti sono oggi definiti, da storici come Rui Vieira Nery, sintomi di “schizofrenia politica”, ma già in quei mesi contrastati i fadisti e gli intellettuali più vicini all’ex opposizione antifascista, rintuzzarono con forza queste volgarizzazioni e difesero a spada tratta Amalia e il fado da ogni sospetto di collusione con il regime. Fra essi Zeca Alfonso, autore di Grandola Villa Morena. Era facile, d’altronde, dimostrare che la cantante aveva collaborato con musicisti e poeti contemporanei che non solo erano vicini all’opposizione clandestina, ma che tentavano di innovare il linguaggio fadista. Per tutti possiamo citare il compositore Alain Oulman, che conobbe anche il carcere per le sue posizioni politiche.
Gli strali dei tradizionalisti
Canzoni come la tenera e surrealista Maria Lisboa, o altre, convogliarono su Amalia gli strali dei tradizionalisti (“Oramai canta Picasso”). Anche un altro loro progetto discografico, dedicato al poeta nazionale Luis De Camoes, suscitò polemiche e prese di posizione da parte dei conservatori. Amalia visse in più dimensioni; era una star internazionale (incise anche in italiano, ma furono dischi tutt’altro che memorabili), e allo stesso tempo, era la voce profonda del suo paese. Difese Alain Oulman quando fu arrestato, ma non fu un’oppositrice del regime, né una sua paladina.
Il fado, incroci afroamericani e tradizioni portoghesi
D’altronde il fado stesso non era, né è tuttora, un concetto facilmente inquadrabile. Le sue origini brasiliane prima, e lisbonesi poi, sono oramai chiarite. È musica ritmicamente afro americana, transoceanica, incrociata con tradizioni urbane portoghesi, come le canzoni da salotto (modinhas). Ha eroine come la prostituta Severa (1820-1846) e la fiorista Julia (1883-1925), ma fra le sue interpreti più grandi fu la nobildonna Maria Teresa Noronha, molto legata alla tradizione, e molto amata dalla Rodrigues, sua coetanea.
Dopo la rivoluzione dei Garofani, alcune Case di Fado, furono il ritrovo di esponenti del vecchio regime e di fautori della restaurazione, ma è altresì accertato che, prima dell’avvento della dittatura (1926), anche la canzone politica socialista e anarchica era basata, principalmente, sul fado. E qualche decennio più tardi Alfredo Duarte “Marceneiro”, cantò, con La Casa de Mariquinas, la nostalgia di una Lisbona più struggente e lontana che non peccaminosa (mariquinas può essere tradotto con transgender, o meglio ancora, con femminielli). Anche Amalia interpretò, su versi e musica diversi dall’originale, quel vecchio mito fadista. Recita il testo, verso la fine “È sempre meglio dar da bere al dolore”.
Il dolore del comunista del fado
A togliere ogni dubbio sulla figura della cantante come mito nazionale condiviso, resta, simbolicamente, l’immagine, ripresa nella cattedrale durante i funerali, di un uomo impietrito, che nasconde il suo dolore dietro occhiali neri (al 38esimo secondo del video). Era l’oggi ottantenne Carlos Do Caro, il Frank Sinatra portoghese, fadista e comunista, figlio di Lucilia, un’altra cantante leggendaria nella storia del genere.
Il fado, tutte le arti lo sono, è multiforme. “Ognuno di noi- scriveva Fernando Pessoa – è più d’uno, è molti, è una prolissità di se stesso. Nella vasta colonia del nostro essere c’è una folla di molte specie che pensa e sente in modo diverso.” Forse è questo l’approccio migliore per ricordare Amalia Rodrigues.