“Artisti in galera” è un libro su musicisti, per lo più,e attori alquanto insolito. Roberto Manfredi ha raccolto le storie di rocker, jazzisti, cantanti, fino all’hip hop, star del cinema che per qualche motivo, quasi sempre il possesso di droga, sono finiti in carcere. Billie Holiday, Vasco Rossi, il nigeriano Fela Kuti imprigionato per ragioni politiche, il testo evita facili moralismi né cade nell’abusato mito, del tutto fasullo, dell’artista che sprigiona il suo genio grazie a sostanze stupefacenti. Anzi, quelle sostanze hanno spesso minato la creatività e, talvolta, stroncato vite. “Questo libro è solo un’esplorazione. Non intende assolvere né condannare nessuno. Documenta solo fatti realmente accaduti a tanti artisti che sono divenuti testimoni e protagonisti della cultura di intere generazioni. Non sono biografie di artisti comunemente definiti ‘maledetti’, sono solo persone che hanno scelto di percorrere strade diverse, percorsi estremi e pieni di insidie per sentirsi ‘disperatamente’ più vivi e dare un senso alle loro esistenze, molto spesso bruciate in un lampo”, scrive Manfredi nell’introduzione .
L’autore è ex produttore discografico, produttore e autore televisivo, documentarista, scrittore. Per gentile concessione dell’editore Skira pubblichiamo uno dei capitoli più toccanti, quello su Mia Martini, finita dentro per mezzo grammo di hashish e, come ricorda Manfredi, celebrata dal mondo dello spettacolo e della tv da morta per ipocrisia e per la voglia di farsi vedere.
L’auditore Rai nel 1964: “Mimì può essere utilizzata”
6 maggio 1964. Negli studi Rai di Milano una giovanissima Domenica “Mimì” Bertè ha appena terminato un provino. Esce a piccoli passi dallo studio, mentre uno degli auditori compila la sua scheda: “Giovanile ma banale. Voce un po’ nasale ma incisiva. Stile moderno, tipo urlatori alla Celentano. In quel genere ha una certa aggressività e può essere utilizzata”. La foto allegata alla scheda ritrae una ragazza sorridente, un po’ acqua e sapone, la famosa ragazza della porta accanto.
In realtà Mimì, questo il suo primo pseudonimo, ha personalità da vendere. Sorride perché le dicono di farlo, ma anche perché, finalmente, è riuscita a farsi ascoltare, dalla madre innanzitutto che l’ha accompagnata a Milano e da chi potrebbe aiutarla a realizzare il suo sogno: diventare una grande cantante. Il giudizio della scheda Rai ci fa sorridere. Non assomiglia affatto a quelli che oggi si leggono nelle schede dei casting dei talent show. Ora si aggiungono crocette e voti. Non si scrive, si compila, come un modulo. Ma quell’ ultima frase ha qualcosa di sinistro: “Può essere utilizzata”.
Già allora, il talento era considerato come un frutto da spremere, da utilizzare e consumare fino all’ultima goccia. A Mia Martini è capitato di peggio. È stata usata persino al suo funerale, non certo un omaggio commosso, ma una sorta di reality show con cinquemila persone accorse per vedere da vicino i colleghi cantanti e i vip della televisione, dove sotto la pioggia battente, sono volati spintoni e insulti per entrare in chiesa. In quel pomeriggio del 15 maggio 1995, la chiesa di San Giuseppe a Busto Arsizio diventa così, uno studio televisivo, dove si celebra l’ipocrisia finale. Tutto il gotha dello spettacolo e della musica che l’aveva abbandonata, è ora lì a renderle quell’omaggio a lungo sepolto sotto una montagna di maldicenze. Un omaggio tardivo, falso e per molti versi persino detestabile.
Le compagne detenute l’hanno amata davvero
Chi invece l’ha amata davvero, oltre a poche figure dell’ambiente musicale che le sono state vicino, sono le sue compagne detenute nel carcere di Tempio Pausania, dove la giovane Mimì sconta una pena di quattro mesi per uso di droga. È il 1969. Il locale più in della Costa Smeralda in Sardegna è il Pedro’s di Porto Cervo. Tappa obbligata per chi vuole entrare in contatto con il jet set dello spettacolo e persino con star internazionali come Brigitte Bardot e Catherine Spaak. Il proprietario è Peter Kant, playboy e affabile cerimoniere di clienti come Gianni Agnelli e la principessa Margareth d’Inghilterra.
Arrestata. Di stupefacente c’è solo la condanna
Un giovedì sera c’è anche Mimì in compagnia di un’amica. Nella borsetta ha un grammo di hashish, giusto per farci un paio di spinelli. Mimì non sa che la Polizia e la Finanza ha già programmato da giorni una retata nel locale, cosa che avviene al culmine della festa. In borghese irrompono sulla pista da ballo urlando la classica frase rituale: “Fermi tutti, Polizia”. Quella sera tra i vip ci sono Margareth d’Inghilterra e la principessa Maria Pia di Savoia che riescono a uscire da una porta secondaria e a dileguarsi. Mimì nasconde nella borsa uno spinello, l’equivalente di mezzo grammo di hashish. Un’inezia ma non per i due agenti in borghese che l’arrestano. Il pomeriggio successivo viene interrogata e poi trasferita in carcere a Tempio Pausania con l’accusa di spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti. Di stupefacente c’è solo la condanna. Nel 1971, è ancora in vigore la legge 1041 del 1954 che punisce severamente il possesso di qualsiasi sostanza stupefacente, sia in relazione allo spaccio che all’uso personale. I consumatori vengono classificati alla stessa stregua dei produttori e trafficanti, anche se trovati in possesso di minime quantità.
A fronte di questa sciagurata legge, Mimì viene condannata alla pari di un trafficante mafioso. Anni dopo ricorderà così l’arresto: “Al Pedro’s c’ero da turista, con un’amica che mi aveva invitato per Ferragosto. Non avevo lavoro, ero stanca e, prima di partire una sera, fumai una sigaretta di hashish. Come bere una bottiglia di liquore per dimenticare. Misi la cicca nella borsetta: grammi 0,35 di hashish che mi sono costati quattro mesi di carcere e una condanna.”
Nessuno viene a trovarla in carcere
In carcere, soffre di depressione. Nessuno viene a trovarla. L’etichetta discografica Esse Records blocca la pubblicazione del suo disco singolo: Coriandoli spenti/L’argomento dell’amore. L’unica possibilità di esercitare la sua voce è quella di cantare in cella per le altre detenute. Canta brani che ha già inciso in numerosi provini, ma soprattutto hit di Etta James e Aretha Franklin le sue muse ispiratrici. Di notte dorme poco o nulla e nella sua testa affiorano brutti ricordi e immagini della sua infanzia, soprattutto l’oscura figura del padre, severo, minaccioso, che disprezzava la musica leggera e le canzoni.
Il carcere di Tempio Pausania, come del resto tutti i penitenziari in Sardegna, è una vecchia struttura mai rimodernata. Si dice che durante la detenzione Mimì tenti il suicidio, ma questo particolare non è mai stato reso noto dalla stessa cantante agli amici o ai suoi discografici negli anni successivi. Non esiste alcun documento carcerario ufficiale che comprovi il tentativo di suicidio.
Quando esce dal carcere ricomincia a vivere e nel 1971 incide un disco per la RCA che ha un titolo fortemente simbolico: Oltre la collina. Mimì butta alle spalle il passato e persino il nome. Ora è Mia Martini. Il nome lo sceglie lei in omaggio a Mia Farrow, la sua attrice preferita. Il cognome lo sceglie il produttore Alberto Crocetta che opta per un brand italiano internazionale come il liquore Martini, già famoso nel mondo grazie ai film di James Bond.
“Buttare i ricordi alle proprie spalle”
“L’importante è buttare i ricordi alle proprie spalle. Io l’ho fatto con un disco, un trentatré giri intitolato Oltre la collina nel quale ho praticamente messo tutta me stessa, tutto il mio passato. Nella canzone Padre davvero c’è anche mio padre, che se ne andò di casa un giorno, vent’anni fa, e che da allora non abbiamo più rivisto. Ho saputo incidentalmente che abita a Milano e insegna in un liceo. C’è anche la mia esperienza con gli hippy a Ibiza, in Spagna e a Katmandu, nel Nepal, in Oriente.Una vita avventurosa, imprevedibile, soprattutto sofferta.”
Il disco subisce varie censure da parte della RAI. Le tematiche delle canzoni vengono giudicate inappropriate. Tra queste La vergine e il mare che parla di uno stupro, Padre davvero a cui viene modificato il testo e Prigioniero testo scritto insieme a Bruno Lauzi, che riporta l’attenzione sul tema carcerario. Testi in qualche modo autobiografici e coraggiosi. Gli anni successivi sono un’altalena di trionfi e delusioni, di ascesa e cadute.
Il decennio Ottanta rappresenta il suo periodo peggiore. Tra i discografici, quello che l’aiuta di più è Lucio Salvini della Ricordi che addirittura le consegna in anticipo il disco d’oro di Piccolo uomo durante la presentazione stampa a Roma. Un azzardo ma anche una profezia che si avvera, con oltre cinquecentomila copie vendute. Lo stesso Lucio Salvini, sedici anni dopo costringerà Mia Martini a tornare sulle scene dopo un lungo periodo di abbandono. Con lo stesso gruppo di lavoro si replica il successo del disco d’oro con Almeno tu nell’universo.
Suicidio? Ma nessun artista si uccide prima di un concerto
Il 14 maggio 1995, nella sua casa di Cardano al Campo in provincia di Varese, viene ritrovata morta, nel suo letto, con ancora addosso un paio di cuffie. Da giorni stava provando un brano che avrebbe dovuto cantare al Festival di Napoli, il giorno successivo. Il medico legale dopo l’autopsia, comunica la causa del decesso: overdose di stupefacenti. Tre giorni dopo il corpo viene cremato e l’inchiesta archiviata. In realtà Mia Martini stava curando un fibroma all’utero con farmaci anticoagulanti e cortisone per rimandare l’intervento. Una perizia di parte l’avrebbe rivelato di certo, ma sarebbero occorsi quasi sessanta giorni per gli esami istologici. La cremazione così affrettata rimane l’ultimo mistero di Mia Martini. Nessun artista si suicida prima di un concerto, forse dopo, prima mai.
Roberto Manfredi, Artisti in galera, illustrazioni di Tom Porta, postfazione di Ezio Guaitamacchi. Skira Editore, 2018, 208 pagine, € 17,00