Ian Anderson, i settant'anni di uno sperimentatore | Giornale dello Spettacolo
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Ian Anderson, i settant'anni di uno sperimentatore

Quando, nel 1969, giunse fisicamente in Italia ''Stand up'', il secondo lp dei Jethro Tull, fu una scoperta per i tanti ragazzi che si nutrivano di musica

Ian Anderson, i settant'anni di uno sperimentatore
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Diego Minuti Modifica articolo

10 Agosto 2017 - 17.33


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Quando, nel 1969, giunse fisicamente in Italia ”Stand up”, il secondo lp dei Jethro Tull, fu una scoperta per i tanti ragazzi che si nutrivano di musica, sia pure in un panorama informativo che si muoveva con mille difficoltà, tanto poche erano le occasioni (leggi, trasmissioni radiofoniche) per confrontarsi con le proposte musicali non italiane. Il primo lavoro della band, ”This was”, era sì piaciuto, ma, come per tutti i gruppi che erano poco conosciuti, si attendeva la controprova del secondo album. Perché, lo si sa, in musica come in letteratura puoi azzeccare l’opera prima, ma è la seconda che ti fa grande.
Fu un brano di ”Stand up”, ”Bourée” , che prendeva spunto da una suite per liuto di Bach, che fece entrare i Jethro Tull nella testa di tanti ragazzi, amanti più che del rock, della musica in generale che, di quel gruppo, come si amava fare un tempo, cominciarono a sezionare ogni cosa, ogni accordo, ogni passaggio, scoprendo così il mondo che ruotava intorno a Ian Anderson che oggi è un settantenne che porta magnificamente la sua età, a cinquant’anni dal suo esordio. ”Stand up” fece storia perché la prima edizione dell’album era particolare, con delle caricature dei componenti la band (Martin Barre, Clive Bunker, Glenn Cornick, oltre allo stesso Ian Anderson), in copertina. Aprendo la copertina (che aveva due facciate) si alzavano altre caricature dei musicisti. Una copertina bellissima, per fattura e realizzazione, e, per quei tempi, molto innovativa, che contribuì ad accrescere l’interesse per i Jethro Tull (avevano preso il nome da un agronomo inglese del ‘700). Che non sarebbero stati quel che poi diventarono se non ci fosse stato Anderson, se non ci fosse stata la sua voglia di sperimentare non mandando al macero, come sarebbe stato facile, la musica tradizionale britannica che, con lui, acquistò una nuova profondità. E poi c’era l’uso del flauto traverso, assolutamente innovativo, di cui era autodidatta, come del resto di tutti gli altri (tanti) strumenti che suona (tra cui le tastiere, il violino ed il trombone) .
Una tecnica che ribaltò la connotazione stessa del flauto, praticamente assente nella musica contemporanea del tempo, ad eccezione dell’uso che ne faceva Roland Kirk, vero innovatore dei fiati (riusciva a suonare, contemporaneamente, tre sassofoni). Kirk, nero, cieco dall’adolescenza e morto nel 1977 ad appena 41 anni, fu per Anderson un punto di riferimento che il musicista scozzese non ha mai rinnegato, riconoscendogli il fatto di avere ‘sdoganato’ il flauto come strumento jazz, cosa che, per quei tempi, era una sorta di bestemmia in sacrestia.
Negli anni Anderson ha creato un suo stile nel suonare il flauto traverso, facendone il marchio di fabbrica suo e della band. Dire oggi quel che il musicista scozzese ha significato per gli amanti della musica che, con il dovuto rispetto, si accostavano alla fine degli anni ’60 alla musica d’oltre Manica, è cercare di spiegare come ci si possa innamorare di un suono, di un ritmo, di un accordo, di una svisata, di una ricerca del nitore timbrico, al di là della qualità dei brani che il gruppo interpretava. I puristi del tempo storcevano il naso davanti ad una band che aveva come sola regola quella di non averne nella ricerca del brano perfetto. Non era certamente un risultato che raggiungevano ogni volta, ma alcuni dei loro pezzi fanno oggi bella mostra nella collezione ideale di chi ama la musica, quale che ne sia l’interprete. Forse il capolavoro di Anderson (e dei Jethro Tull, anche se non si può certo dimenticare il successivo album ‘Tick is a brick’) è ‘Aqualung’, che svegliò, a suon di schiaffi, la Gran Bretagna patinata e che occhieggiava all’opulenza, raccontando la storia di un reietto, di un barbone che combatteva contro la società, ma soprattutto contro se stesso ed i demoni che lo divoravano. Un salto nel dolore senza fine per un gruppo che, sino a quel momento, era ancora in una fase di ricerca e che ‘Aqualung’ proiettò nella maturità. Anche la copertina, opera del pittore Burton Silvermann, contribuì al successo, ritraendo il barbone con gli occhi spiritati, trasandato, infagottato di un cappotto liso e con alle spalle manifesti che inneggiavano al consumismo. La dolcezza della voce di Anderson faceva e fa da contraltare alla durezza dei testi, di cui ancora oggi si riconosce il coraggio e la crudeltà.
Ian Anderson fa ancora concerti in giro, attrae molti appassionati, crea un feeling con la gente. Ma per tutti resterà il flautista che, vestito come un bardo seicentesco, suonava su una gamba. Una immagine iconica che resiste al passare degli anni e che gli sopravviverà. ,

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