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La Jura ci racconta una Sardegna arcaica

Non solo uno spettacolo, ma un progetto che ha richiesto tempo, pazienza, organizzazione, attorno al quale gravitano convegni, concerti, recite e laboratori creativi.

La Jura ci racconta una Sardegna arcaica
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23 Novembre 2015 - 18.37


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di Francesca Mulas

Non una semplice rappresentazione teatrale ma un progetto che ha richiesto tempo, pazienza, organizzazione e attorno al quale gravitano convegni, concerti di musica popolare, recite dedicate alle scuole e laboratori creativi. Un lavoro importante e impegnativo che ha coinvolto tutti, al Teatro Lirico di Cagliari: e per questo motivo fa ancora più rabbia che a pochi giorni dalla prima, che si è svolta venerdì 20 novembre 2015, uno dei motori di questa macchina perfettamente oliata se ne sia andato. Pier Paolo Pianta, dell’ufficio stampa, non ha fatto in tempo a vedere “La Jura” finalmente in scena. Ma se invece noi possiamo lo dobbiamo anche a lui.

Ed ecco dunque l’attesissima “Jura” del tempiese Gavino Gabriel, finanziata dalla Regione Autonoma della Sardegna nell’ambito dell’Accordo di Programma Quadro “Smart Business Factory”, che utilizza fondi europei per valorizzare i patrimoni culturali della Sardegna attraverso la produzione di spettacoli dal vivo. In conformità con le linee guida di questo programma, il cast artistico coinvolge vari artisti della Sardegna, affiancando musicisti di fama internazionale a giovani esordienti selezionati attraverso un progetto di valorizzazione e promozione dei talenti locali. La recita del 25 novembre sarà trasmessa in diretta su Rai Radio3 e della produzione verranno, inoltre, realizzati un cd e un dvd.

La trama racconta un fatto di cronaca nera della Gallura dei primi del XIX secolo, rielaborato secondo gli stilemi veristici ma corretto da una buona dose di neoclassicismo, visto lo sfasamento temporale rispetto all’esplosione di Cavalleria Rusticana e Pagliacci. Le uniche tre rappresentazioni de “La Jura” sono infatti del 1928 (al vecchio Politeama di Cagliari), del 1958 a Napoli e del 1959, di nuovo a Cagliari (Teatro Massimo): da allora l’opera non è più andata in scena sino ad oggi, in una versione curata dalla musicologa Susanna Pasticci, che ha compiuto un’operazione di ricostruzione filologica sia della partitura che del testo. A interpretare i personaggi che agiscono e amano condizionati dall’ambiente che li circonda, secondo un’ottica fortemente positivista tipicamente novecentesca, e soggiogati dalle tradizioni della loro terra (il titolo “La Jura” fa riferimento a una forma di giuramento ordalico che impone la morte senza vendetta a chi trasgredisce al patto) un cast prevalentemente sardo. Anna, promessa sposa di Buredda ma innamorata del poeta cantore Cicciottu Jaconi, è Paoletta Marroccu, uno dei soprani sardi più interessanti e affermati nel panorama internazionale; Matalena, sorella di Anna e innamorata di Buredda, è Francesca Pierpaoli, cresciuta al Conservatorio cittadino e ora apprezzata interprete; Pasca Ucchjtta, ex di Buredda dapprima infuriata per le sue inadempienze nei confronti della figlioletta Salvatora e, dal terzo quadro, madre disperata per la morte della bimba, è Nila Masala, soprano sassarese apprezzata in Europa e a livello mondiale (nel secondo cast Pasca è Barbara Crisponi, bravissima musicista cagliaritana, pianista e cantante estremamente versatile e dalla presenza scenica catalizzante), Buredda (ricco possidente innamorato di Matalena ma costretto dalle convenzioni a sposare Anna) è il cagliaritano Nicola Ebau e così scorrendo. Cicciottu Jaconi, colui che nell’opera rappresenta l’emblema della sardità – il poeta cantore che compie un doppio omicidio, il primo assolutamente inutile ma necessario per ottenere la mano dell’amata Anna, mentre nel secondo uccide il padre di Anna, reo di non aver ottemperato al suo giuramento e aver comunque dato in sposa Anna a Buredda – è invece il tenore Rubens Pellizzari, diplomato al Conservatorio di Riva del Garda, per il quale di certo non deve essere stato semplice calarsi in una parte con così pochi margini.

Diciamo subito che, dal punto di vista musicale, “La Jura” non è un caposaldo della letteratura: sicuramente interessante per capire la natura e lo spirito del grande intellettuale sardo Gavino Gabriel, che ha composto partitura e libretto, sicuramente interessante per la ricostruzione basata su documenti d’archivio e per il lavoro di ricerca che è stato compiuto, sicuramente interessante perché è sempre meglio conoscere e giudicare piuttosto che restare nell’ignoranza, bisogna però ammettere che “La Jura” non riesce a mantenere le promesse. Idee melodiche accennate e subito compresse, un’armonia con degli sprazzi vagamente politonali per ricordare i canti della tradizione sarda ma in fondo assolutamente convenzionale, il tentativo di unione fra etnomusicologia isolana e tradizione melodrammatica risolto con l’introduzione di alcune cellule di alcuni ben conosciuti canti tradizionali e con l’inserimento della “Disispirata”, registrata nel 1922 dallo stesso Gabriel (testo di Gavino Pes) e messa come collante fra il terzo e quarto quadro. In quest’ottica, invece, una piacevole sorpresa è rappresentata dal Coro dell’Accademia Popolare Gallurese Gavino Gabriel, interprete di alcune preghiere o invocazioni tipicamente galluresi a nella tipica forma musicale “a tàsgia” non contaminate dalla musica occidentale ma traslate direttamente in scena: sicuramente la parte più interessante dell’opera, insieme alla figura di Pasca, irrilevante nell’economia della trama, irrilevante per la componente identitario ma affascinante nella sua pazzia e nella resa musicale.

Il cast vocale ha, nonostante questi limiti musicali (e nonostante la difficoltà delle parti), fatto una buona prova, pur con qualche sbavatura soprattutto espressiva derivante soprattutto da alcune scelte che forse non aderivano perfettamente al tipo di timbro e articolazione richiesti dall’opera. Anche l’orchestra, guidata dal Mastro Sandro Sanna, ha egregiamente superato gli ostacoli di una partitura studiato spesso “in fieri” anche durante le prove e offerto un ottimo ascolto. La regia di Cristian Taraborrelli ha reso soprattutto a partire dal terzo quadro, in particolare con le scelte di un telo nero che faceva intravedere le maestranze che cambiavano le scene fra terzo e quarto quadro (quasi una scena da cinema muto) e, nell’ultimo quadro, le pose e le luci alla Hayez dei due protagonisti, Anna e Cicciottu, che sugellano il loro amore. In conclusione, è difficile esprimere un giudizio sull’opera: merita di essere vista, anche solo per capire come si osservasse, ancora alla fine degli anni ’50 una Sardegna, nell’immaginario collettivo, per sempre rurale e arcaica.

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