'Favole di fiume': Luca Ponzi tra la sua 'gente di Po' | Giornale dello Spettacolo
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'Favole di fiume': Luca Ponzi tra la sua 'gente di Po'

Favole di fiume di Luca Ponzi raccoglie una manciata di racconti il cui unico, autentico comun denominatore è l’ambientazione nei pressi del Po, prevalentemente, anche se non sempre dichiaratamente, nella Bassa parmense.

'Favole di fiume': Luca Ponzi tra la sua 'gente di Po'
Luca Ponzi
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2 Maggio 2022 - 15.03


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di Rock Reynolds

I più ne conoscono soprattutto l’inconfondibile accento emiliano, con quella sua “erre moscia”, da fidentino DOC. Luca Ponzi, che ha firmato per i telegiornali RAI regionali come per quelli nazionali servizi sui principali avvenimenti di cronaca verificatisi in Emilia Romagna negli ultimi trent’anni, ha la stoffa antica del narratore. Quella trama fine l’ha mascherata abilmente sotto il panciotto del giornalista, ma è una seconda pelle che, in fondo, rischia di soppiantare la prima.

Dopo aver pubblicato Mostri normali. Storie di morte e d’altri misteri (Mursia), una raccolta di casi insoluti avvenuti nella sua regione, e Cibo criminale (Newton Compton Editori), un reportage su uno dei nuovi business della criminalità organizzata, ovvero il controllo del processo produttivo alimentare, Luca Ponzi finalmente approda alla sua autentica vocazione: la narrativa.

Favole di fiume (Oligo Editore, pagg 118, euro 14) raccoglie una manciata di racconti il cui unico, autentico comun denominatore è l’ambientazione nei pressi del Po, prevalentemente, anche se non sempre dichiaratamente, nella Bassa parmense. L’amore per le storie e, soprattutto, per la gente che le popola balza all’occhio, oscillando tra finzione e realtà, senza soluzione di continuità, in un teatrino di personaggi grotteschi che, grazie alle situazioni in cui l’autore li colloca, finiscono per trasmettere profonda umanità e credibilità al contesto.

La penna di Luca Ponzi si muove sulla pagina con una leggerezza vagamente retrò: una dichiarazione orgogliosa di appartenenza a un territorio e di passione per le letture classiche.

Il Po ha un suo fascino naturale, antico. Cosa l’ha colpita al punto da renderlo protagonista dei suoi racconti?

Sono due domande in una. Se fosse un’intervista televisiva, ci sarebbe un problema… Rispondo prima alla seconda. Questa raccolta nasce da lontano, nel tempo, incontrando persone, magari in modo casuale, magari in contesti difficili come quando andavo a raccontare un episodio di cronaca nera o una catastrofe.

Ho accumulato in un angolo della memoria una serie di aneddoti, di sensazioni, di modi di dire che sono rimasti lì. Ogni tanto, qualcuno mi tornava in mente e cominciava a costruirsi un proprio contesto, una propria situazione, il bozzolo di una storia. Amo le parole e questi spunti erano il pretesto per giocare con le parole, che sono uno dei ferri del mestiere del cronista, seppur non il principale.

Man mano che procedevo con le stesure, le storie si sono modificate e arricchite, diventando le undici favole. E arrivo al Po: di alcune di queste vicende è senz’altro l’ispiratore. “Suicidio” mi è venuto in mente guardando uno splendido tramonto nel ferrarese; la predica di “Don Alceste” si giustifica solo con la piena. Tutte le volte che guardo il fiume, penso letteralmente a “quanta acqua è passata sotto i ponti”, quante cose gli uomini hanno visto, fatto e spero facciano. Noi siamo impastati anche di quel passato.

Ho la sensazione che ci siano echi di Guareschi e Zavattini, forse pure di Tondelli, in quello che scrive. Fuochino?

Guareschi lo conosco molto bene, nel senso che ho riletto ogni libro almeno una decina di volte. Zavattini e Tondelli molto meno, purtroppo. Credo che ci possa essere un’eco di chi ci ha preceduto, anche se davvero ho tentato di tenermi il più lontano possibile dall’evocazione, perché sarebbe stato solo un goffo tentativo di scimmiottare tre giganti, come se giocando a pallone volessi imitare il sinistro di Maradona.

La gente del Po che cos’ha di speciale? In fondo, ne caratterizza tanta… 

La gente del Po è come il Bicio, protagonista di “Apecar”: è gente soprattutto di sentimento, anche se non necessariamente di sentimento positivo. È gente che prende posizione, a volte con arroganza. Ma, almeno, prende posizione. Si sente forte della forza del fiume.

Perché c’è sempre un prete nelle storie della Bassa emiliana?

Il prete nelle piccole comunità è una figura centrale, com’era lo sciamano nei villaggi: è il custode del rapporto con l’eterno, con il soprannaturale, ma anche il custode di tanti, tantissimi segreti molto più concreti e volgari. Attraverso la confessione sapeva tutto, di tutti, e di lui ci si poteva quasi sempre fidare. I nostri preti sono gente di carne, che conosce i piaceri della vita, non necessariamente peccando. Non a caso, nel pranzo della domenica il taglio di carne più prelibato veniva detto “la parte del prete”, perché, quando il parroco veniva invitato in qualche famiglia, essendo ovviamente un ospite di riguardo, veniva servito per primo e nel modo migliore.

Da giornalista esperto, in che modo ha visto la presenza di tanti extracomunitari cambiare il nostro tessuto sociale?

Come l’acqua del fiume, i mutamenti della società non si possono fermare. Si può tentare di governarli, di mettere argini affinché non facciano danni, ma certo non si fermano. Le migrazioni sono frutto dello squilibrio economico sul quale noi abbiamo costruito il nostro benessere ed è inevitabile che chi sta peggio aneli a un futuro migliore per sé e per i propri figli. D’altronde, siamo un paese di migranti: ci sono più italiani fuori dall’Italia che qui. Detto questo, l’aspetto negativo che noi attribuiamo al fenomeno dell’immigrazione è dato esclusivamente dal fatto che la nostra politica non ha mai tentato realmente di governarla: paghiamo i trafficanti di uomini libici affinché torturino più persone possibile perché non arrivino da noi e quelli intascano i soldi e comunque lasciano sempre partire qualcuno, altrimenti non li pagheremmo più; facciamo lavorare le persone nelle campagne, lucrando su paga e diritti, e la politica fa finta di non vedere; teniamo in vita i centri di accoglienza sui quali in molti guadagnano; non facciamo rispettare le leggi (nemmeno agli italiani, in realtà); non facciamo pagare le tasse.

Al di là di qualche tentativo molto locale, non è mai stata portata avanti una seria e concreta idea di integrazione. Per esempio la terribile, ma non isolata, storia di Saman. A Saman è stata giustamente offerta una visione del mondo che è la nostra visione del mondo: la convinzione di essere libera. Analogo messaggio però non è mai arrivato alla sua cerchia parentale, rimasta ancorata a un’idea tribale dei rapporti.

Questo scontro ha portato alla morte della ragazza. Non si può pensare che gente scesa dalle montagne del Pakistan, che lavora nei campi tutto il giorno, se non adeguatamente seguita e incentivata, si evolva. Qualsiasi comunità di emigrati porta con sé il modo di vita del paese che ha lasciato (e di cui in questo caso, sia ben chiaro, non condivido nulla).

Per questo, dico che occorre lavorare sull’integrazione: Saman rispetto ai suoi familiari era così “moderna” da costituire un oltraggio. Si badi bene che non c’entra la religione: è un fatto di subcultura. Quello che lei ha imparato del mondo, la sua dignità di ragazza e di donna, sono cose che nemmeno sua madre poteva concepire, anche perché mai nessuno gliele aveva spiegate. Non sto dando la colpa alla comunità di Novellara, non sto dando la colpa a nessuno. Semplicemente, è un tema mai affrontato in modo organico. Aggiungo che personalmente non saprei come affrontarlo.

Per il resto, gli inevitabili cambiamenti portati dalla presenza di culture diverse possono in realtà essere fonte di arricchimento, come è stato per la mia famiglia. Bisogna essere capaci di trovare i punti comuni e su quelli costruire gli equilibri. Però, conosco stranieri che sanno distinguere un salame fatto in casa da uno industriale, pur venendo da altri mondi. 

Lei scrive, “È questione di suono e il suono è dato dalla combinazione delle lettere”. Quando scrive da giornalista, si dimentica del suono?

In realtà, no. Cerco di lavorare sul suono anche nei miei servizi televisivi. Anzi, proprio in televisione è fondamentale, visto che si tratta di parole dette, pronunciate. È un’idea che mi è venuta confrontandomi con il lavoro di due persone completamente diverse: Davide Barilli, collega giornalista e ottimo scrittore, e Roberto Vecchioni, uno dei miei cantautori preferiti, che nella canzone dedicata ad Arthur Rimbaud usa questo meraviglioso verso: “Ribaltare le parole, invertire il senso fino allo sputo, cercando un’altra poesia”. Negli anni c’ho ragionato, ho sperimentato e ho cercato di elaborare una teoria, ovvero che le parole e il racconto hanno un loro suono. Una teoria che aveva trovato l’approvazione nientemeno che di Giorgio Gaslini, il grande pianista e compositore a cui l’avevo esposta in una conferenza a Borgotaro. Cerco (pur avendo molto meno tempo per ragionare e molto meno spazio per descrivere) di lavorare in questo modo anche quando faccio il giornalista. Non solo per il suo delle parole ma anche per il ritmo del fraseggio, che dovrebbe accompagnarci all’interno del racconto o dell’articolo, contribuendo a creare uno stato d’animo. Non sempre ci riesco, però mi diverte farlo

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