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Le stragi nazi-fasciste e la memoria

Cosa succederà quando la memoria dei sopravvissuti si spegnerà insieme agli ultimi testimoni dello scempio della Seconda guerra?

Le stragi nazi-fasciste e la memoria
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24 Febbraio 2024 - 23.21


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di Rock Reynolds

Cosa succederà quando la memoria dei sopravvissuti si spegnerà insieme agli ultimi testimoni dello scempio della Seconda guerra? Non è certo un quesito dell’ultima ora, eppure chi in quella guerra ha combattuto dalla parte dei giusti e chi vi ha patito lutti e violenze ha a cuore da sempre la difesa della verità storica. L’Italia è un paese uscito più che malconcio dal conflitto, ma è ancor più una nazione lacerata, il cui popolo non ha mai del tutto superato la ferita profonda che gli ha squarciato il cuore: l’adesione di massa al movimento fascista e alle sue nefandezze e i sensi di colpa che il risveglio brusco da un delirante sogno di grandezza trasformatosi in incubo tangibile gli avrebbero turbato il sonno. Non se ne viene a capo: non riusciamo ad ammettere che il Fascismo è un male assoluto e che questo paese fonda le sue basi su una sana Costituzione antifascista ma pure su istituzioni ereditate dal regime. Basti pensare all’atteggiamento ondivago nei confronti di quello che, alla luce dei pestaggi di Firenze e Pisa di ieri, non smette di assumere le sembianze di uno stato di polizia oppure alla ricerca ossessiva di una pacificazione senza rimorsi e pentimenti, con la l’inseguimento patetico di consensi universali attraverso la creazione di giornate della memoria più o meno condivisibili ma non di una giornata del ricordo delle vittime delle stragi nazifasciste.

Servono informazione e conoscenza per creare una coscienza nazionale seria. Forse, la ferita è talmente purulenta che nemmeno quelle potrebbero bastare. Iniziare, però, a far un minimo d’ordine nella matassa è un punto di partenza dovuto. Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore, conduttore radiofonico e regista teatrale e cinematografico, è abituato a occuparsi di materie controverse. Eccidi nazifascisti. L’armadio della vergogna (Jaca Book, pagg 187, euro 19) è il suo ultimo libro e si avvale della prefazione di Bruno Manfellotto, editorialista de l’Espresso e de Il Piccolo, e vanta una profonda intervista a Franco Giustolisi (a cui è dedicato), il giornalista scomparso nel 2014 a cui si deve il conio dell’espressione “armadio della vergogna”. E dal rinvenimento nel 1994 di un armadio in uno sgabuzzino della Procura Militare a Roma, un armadio contenente fascicoli processuali su stragi nazifasciste insabbiati volutamente, prende le mosse.

Biacchessi ricostruisce, anche alla luce di tali documenti a lungo sepolti, alcuni degli eccidi più raccapriccianti ai danni della popolazione civile italiana, massacri attuati da reparti dell’esercito tedesco in rotta, con la collaborazione di repubblichini e delatori. I nomi sono tristemente noti: Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine, Marzabotto, tanto per citare i più conosciuti. Un’autentica giustizia non venne mai fatta anche perché, mentre l’Italia veniva liberata dagli Alleati e dai partigiani, lo spettro del comunismo avanzante in Europa cambiò assetti tattici e priorità, consentendo a schiere di criminali di guerra di farla franca e, addirittura, di ottenere ruoli primari nei neonati governi dei paesi dell’Asse. La protervia e la costanza con cui la classe politica italiana ha trasversalmente evitato di occuparsi della questione, tentando di farla cadere immancabilmente nell’oblio, ha dell’incredibile.

Cosa si può concretamente fare in Italia per non far finire nient’altro in nessun “armadio della vergogna”?

«In primis, bisogna applicare le leggi. Ci sono quattro livelli di classificazione di documenti coperti dal segreto di stato: riservato, riservatissimo, segreto, segretissimo. In Italia, con i dispositivi di legge attuali, la durata complessiva del vincolo del segreto di stato non può superare trenta anni. Ciò vuol dire che tutti i documenti relativi alle stragi del dopoguerra (Portella della Ginestra, piazza Fontana, piazza della Loggia di Brescia, questura di Milano, Italicus, stazione di Bologna, Rapido 904, Capaci e via d’Amelio a Palermo, via Fauro a Roma, via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano, Laterano e Velabro a Roma), dovrebbero essere liberi e privi del segreto di stato. Il Presidente del Consiglio dei ministri, indipendentemente dal decorso dei termini, dovrebbe disporre la cessazione del vincolo quando sono venute meno le esigenze che ne determinarono l’apposizione.»

Quale fu il momento decisivo nella rideterminazione degli assetti internazionali che fecero della storia italiana della Seconda guerra un capitolo da occultare?

«Siamo nel 1960, e sono ormai passati quindici anni dalla fine del conflitto. La Germania, sconfitta e lacerata, è divisa in due dal muro di Berlino. Il nemico dell’Occidente non è più il nazismo, ma l’Unione Sovietica. In Italia è terminata la ricostruzione, i consumi si impennano grazie al boom economico e i civili e i militari uccisi devono restare avvolti nell’ombra, come vittime invisibili. Così il procuratore generale militare gen. Enrico Santacroce, che dipende dalle volontà̀ politiche dell’allora governo guidato da Antonio Segni (Giulio Andreotti alla Difesa, Giuseppe Pella agli Affari Esteri, Guido Gonella a Grazia e Giustizia, Paolo Emilio Taviani alle Finanze), il 14 gennaio 1960 emette un decreto di archiviazione provvisoria dei documenti sulle stragi. È un atto giudiziario illegale, a opera di un alto funzionario dello stato su mandato governativo. Potrebbe essere una normale formula con cui i giudici archiviano il mancato accertamento degli autori del furto di un motorino. Invece dentro in quella archiviazione provvisoria, finisce un pezzo di storia d’Italia.»

Le è capitato di parlare nelle scuole? Che tipo di esperienza è stata e che reazione hanno suscitato tra gli studenti le sue parole ?

«Penso che il teatro, e più in generale la narrazione, siano modalità efficaci per raccontare storie del paese dimenticate facendole arrivare ad un grande pubblico, soprattutto giovanile. Oggi bisogna scuotere il pubblico, c’è bisogno di indignarsi quando si apprende che i generali che hanno compiuto i depistaggi sulla strage di Ustica sono stati assolti, quando la Cassazione assolve tutti gli imputati per la strage di Piazza Fontana, quando dopo tanti anni si riesce a portare a casa una verità giudiziaria per la strage di Brescia. Ci si deve indignare quando i processi per le stragi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto si chiudono dopo molti, troppi anni dagli eventi e si scopre che quelle verità erano state nascoste in un armadio chiuso a chiave, protetto da un cancello e da un lucchetto, nella sede della Procura Generale di Roma. Il teatro può sostituirsi alla mancanza di verità e di giustizia. I ragazzi delle scuole lo capiscono. Almeno per consegnare alle nuove generazioni un pezzo della memoria del nostro paese.  “Per non dimenticare, grazie” è anche l’ultima frase che dico nei miei spettacoli e nei miei racconti nelle scuole.»

L’Italia è stata ritenuta un territorio fondamentale nel contrasto all’avanzata delle sinistre in Europa e del Comunismo in generale. Perché?

«Nel dopoguerra, e fino alla metà degli anni Settanta, il Pci è il più forte partito comunista occidentale. Raggiunge un bacino di oltre 11 milioni di elettori, con circa due milioni di iscritti. Nelle amministrative del 1975, il Pci conquista con il Psi l’amministrazione delle principali città italiane. Nel 1976, sfiora di un soffio la vittoria alle elezioni politiche nazionali. È un’avanzata decisa e lineare che preoccupa il Dipartimento di Stato americano e il Foreign Office britannico, i servizi di sicurezza di Washington e Londra. La Democrazia Cristiana va in crisi e cerca un compromesso storico con il Pci grazie a figure come Aldo Moro. La Cgil è il primo sindacato del Paese con quasi sei milioni di iscritti. Tutto è in movimento in quegli anni e basta un niente, un errore di valutazione, per far ritornare l’Italia nel vortice della restaurazione.»

Quanto i militari nazisti rimessi in libertà e i fiancheggiatori fascisti mai processati e/o condannati contribuirono agli anni della strategia della tensione?

«Faccio tre esempi.  Mario Roatta, dal 1942 comandante della seconda armata italiana in Slovenia, Croazia e Dalmazia, responsabile della cosiddetta “circolare 3C” che ordina rappresaglie su civili e partigiani jugoslavi, deportazioni, carcerazioni ed esecuzioni capitali, dopo l’armistizio viene nominato da Pietro Badoglio capo di Stato maggiore, poi sollevato dall’incarico: la Commissione d’inchiesta per la mancata difesa di Roma lo indaga nell’ambito dei processi di epurazione. Il 4 marzo 1945, fugge dall’ospedale militare presso il liceo Virgilio di Roma, in cui è detenuto, grazie alla complicità di membri della polizia e dei servizi segreti britannici. Si rifugia in Spagna sotto la protezione del dittatore Francisco Franco. In seguito alla condanna dell’Alta corte di giustizia del 1945, l’amnistia del 1946 e l’assoluzione del 1948, Mario Roatta è un uomo libero. È il fondatore di un servizio segreto clandestino, attivo in Italia dalla fine della guerra agli anni Ottanta in funzione anticomunista. Muore a Roma nel 1968. Marcello Guida, direttore della colonia di confino politico di Ventotene ed ex vicedirettore di quella di Ponza, sarà al vertice delle Questure di Pavia, Gorizia, Trieste, Torino, e a Milano, nei giorni delle inchieste sulla strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, e delle gravi deviazioni verso l’inesistente “pista anarchica”, con gli arresti di Pietro Valpreda e Pino Pinelli, risultati innocenti e totalmente estranei in sede processuale. L’allora giovane commissario di PS in epoca fascista Federico Umberto d’Amato diventerà il capo del potentissimo Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno dal 1971 al 1974 e sarà protagonista delle trame occulte innescate negli anni della “strategia della tensione”, dalla strage di piazza Fontana a quella di Bologna. Per l’eccidio alla stazione del 2 agosto 1980 (85 morti, oltre 200 feriti), Federico Umberto D’Amato viene condannato in primo grado post mortem nel processo contro i mandanti insieme a Paolo Bellini, Licio Gelli, Umberto Ortolani, Mario Tedeschi, Domenico Catracchia, Piergiorgio Segatel.»

Come si è riusciti a far passare certe menzogne di fronte all’opinione pubblica?

«Attraverso un sistema collaudato di coercizione mediatica, frutto dell’applicazione della ragione di Stato. L’Italia è un Paese sostanzialmente a sovranità limitata. Siamo stati alleati della Germania fino all’8 settembre 1943 e il nostro territorio era già occupato dai nazisti poche ore dopo la firma dell’armistizio. L’avanzata degli angloamericani, con gli sbarchi in Sicilia, Salerno, Anzio e Nettuno, e la formazione di brigate partigiane che organizzarono le insurrezioni in numerose città, hanno determinato la liberazione dal nazifascismo. Ma la ragione di stato, imposta dai governi democristiani nel dopoguerra, prevedeva l’impossibilità che venisse diffusa la verità su oltre centomila morti tra civili e militari a opera di nazisti e fascisti. Sull’altare della realpolitik si è sacrificata la nostra sovranità, fino all’archiviazione provvisoria nell’armadio della vergogna del 1960. Però, 34 anni dopo, la geopolitica era mutata in Italia, e dal 1996, grazie ai reportage del giornalista de l’Espresso Franco Giustolisi, si sono potuti conoscere i contenuti di 695 fascicoli raccolti in faldoni, stipati uno sull’altro, con un registro composto da 2.274 notizie di reato, il cosiddetto “Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi”. Tutto era celato in modo rigoroso, preciso, ordinato. Solo a quel punto, si viene a sapere che i fascicoli complessivi sono 2.205: 260 già inviati ai tribunali ordinari nell’immediato dopoguerra, 1.250 distribuiti alle procure militari territorialmente competenti, 695 fatti sparire per un terzo di secolo. Gli articoli di Giustolisi hanno posto fine alla menzogna e al silenzio mediatico. Così, i processi sono potuti partire perché ormai il re era nudo.»

Lei scrive che Scelba ha “ricollocato un buon numero di funzionari fascisti”. È stata una scelta orientata alla repressione del nascente movimento socialista o, piuttosto, un tentativo di normalizzare il dopoguerra nelle istituzioni?

«Si tratta certamente di un tentativo pienamente riuscito di normalizzare il dopoguerra attraverso la tacita transizione degli apparati fascisti nella nascente repubblica italiana. Secondo il rapporto della Commissione per l’epurazione dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo del 1945, su 143.781 dipendenti pubblici dello stato fascista esaminati, 13.737 vengono processati e, di questi, solo 1.476 rimossi dal loro incarico, quindi dai gangli del potere. Negli anni Sessanta, a un quindicennio dalla fine della Seconda guerra mondiale, su 64 prefetti, 62 sono funzionari degli Interni durante la dittatura fascista; 241 viceprefetti provengono dall’amministrazione fascista; 120 su 135 questori giungono dalle varie polizie ufficiali della Repubblica di Salò; 139 vicequestori. Interi settori della magistratura e della polizia, dell’esercito, della burocrazia e dell’università, rimangono al loro posto, si sottraggono alle misure di bonifica democratica. Funzionari dello stato fascista saranno poi gli stessi a gestire parti influenti degli apparati del nuovo stato repubblicano.»

Si parla spesso con superficialità del fallito “Golpe Borghese”, quasi che fosse una cosa da ridere fin dal principio. Vogliamo rettificare questa mistificazione?

«Dopo gli attentati del 1969 e la bomba del 12 dicembre alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, emerge un piano che deve sfociare in un tentativo di colpo di stato militare. E il principe Junio Valerio Borghese lo organizza la notte del 8 dicembre 1970. L’operazione “Tora Tora” non è un golpe da operetta, come scritto da qualcuno, ma un vero piano per sovvertire le istituzioni democratiche. Ventimila persone tra militari dai più alti ranghi fino alla fanteria, esponenti di varie fronde della destra così come gruppi di industriali e politici, tentano un colpo di stato. L’obiettivo dell’azione è prendere il controllo della nazione istituendo un governo militare. Il piano prevede l’arresto di Giuseppe Saragat allora presidente della Repubblica, l’uccisione di Angelo Vicari al comando della Polizia, l’occupazione degli studi Rai da parte di un reparto dei forestali, un discorso di Borghese in TV.»

Lei ha chiesto a superstiti di stragi di parlarle dei repubblichini che contribuirono a snidare, rastrellare e ammazzare, quando non seviziare, partigiani e oppositori del fascismo. Che idea si è fatto?

«Per la strage di Vinca, pianificata dalla Brigata nera di Apuania, le testimonianze valgono per tutti. Ogni commento sarebbe pleonastico. Ercolina Papa viene impalata, nuda; Alferina Marchi, incinta di sei mesi, sventrata; la bimba Nunziatina Battaglia viene lanciata in aria dai nazifascisti e colpita come si fa nel tiro al piattello; due anziani, Paris Matei e Silvio Boni, vengono bruciati dentro le loro abitazioni date alle fiamme; un cieco, reduce della Prima guerra mondiale, viene ucciso mentre tenta di nascondersi; il parroco don Luigi Ianni viene trucidato. Tutto ciò avviene mentre un soldato suona tranquillo il suo organetto e gli altri camerati cantano a squarciagola “Lili Marlene”. Eva Borzani si è rifugiata con altri suoi concittadini in una grotta. Arrivano i fascisti. “Vittorio, porta le munizioni!”. Allora giungono i rinforzi con i proiettili. I militi caricano i fucili e sparano nel buio della caverna. Eva Borzani è ferita, ma si salva. Al padre morto portano via perfino l’orologio. I testimoni al processo contro la Brigata Nera di Apuania hanno sentito continuamente parlare in dialetto carrarino. Erano i commilitoni di Giulio Lodovici: Giovanni Bragazzi, Ferdinando Bordigoni, Corinno Fabiani, Andrea Pensierini, Elio Ussi, Giuseppe Diamanti, Paris Capitani e altri ancora, che hanno stanato i loro stessi conterranei. Lodovici sarà̀ assolto il 29 novembre 1948 dalla Corte d’Assise di Perugia. Gli altri saranno tutti condannati, sempre nel capoluogo umbro, il 21 marzo 1950, ma poi liberati in virtù di amnistie e indulti. “Guarda in quel cespuglio, guarda in quell’altro. Spara là, spara là! Ammazzateli tutti, piccoli e grandi. Giovanni sta’ attento, ammazzali quanti ne vedi. Giovanni, ce n’è un chioppo qui, mi occorre una mitragliatrice. Giovanni, si ammazza? Quelli che trovate fucilateli tutti. Carlo, c’è una donna che non vuol morire. Tirale una bomba e non risparmiare nessuno. Finalmente le abbiamo trovate, vieni qua, non le uccidete dentro i buchi, sennò possono restare ferite o vive, tiratele fuori e mitragliatele.”»

Cosa resta ancora da scoprire e appurare di quel tragico periodo e, soprattutto, cosa frena ancor oggi la divulgazione della verità?

«C’è ancora molta strada da compiere, anche nelle sedi istituzionali per difendere la memoria delle vittime delle stragi nazifasciste in Italia da operazioni di revisionismo, o peggio ancora, di vero e proprio “rovescismo”, in cui le vittime diventano carnefici e gli assassini si trasformano in martiri. I vinti si prendono una rivincita postuma sui vincitori, invertendo le parti della storia. Uno stato democratico, con una Costituzione nata dalla Resistenza, non lo può permettere.»

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