di Rock Reynolds
È un problema endemico dei nostri tempi dover fare i conti con la crescente obnubilazione dei ricordi sotto i colpi implacabili dell’invecchiamento neurologico. Eppure, persino chi ha perso la memoria tende a ricordare con chiarezza momenti della propria vita di cui una canzone ha segnato una tappa importante come pure eventi epocali scanditi da una più o meno involontaria colonna sonora. Proprio di recente, mi è capitato di intervistare una scrittrice israelo-yemenita che mi diceva di ricordarsi perfettamente non solo il luogo in cui si trovava quando aveva udito la notizia dell’assassinio di Ytzak Rabin – ovvero in automobile, in viaggio negli USA – ma pure quale canzone la radio stesse trasmettendo appena prima di informarne i suoi ascoltatori.
I solchi della storia – Gli avvenimenti che hanno ispirato grandi musiche (Vololibero, pagg 259, euro 18) di Maurizio Galli raccoglie una serie di eventi epocali che sono stati celebrati da grandi canzoni oppure che hanno scavato un solco nelle coscienze di musicisti e di semplici cittadini, in Italia come all’estero. La parte del leone la fanno, come sempre quando si parla di musica moderna, gli Stati Uniti. D’altro canto, il rock’n’roll non è nato nelle steppe del Belucistan né in Pianura Padana. Ma non mancano riferimenti a momenti della storia recente a noi più vicini. Dalla cacciata delle popolazioni francofone dal Quebec durante la guerra fra Francia e Inghilterra, alla guerra di secessione, dalle lotte per i diritti civili degli afroamericani alla strage di Piazza Fontana, dalla caduta del muro di Berlino alla guerra del Vietnam, dal golpe militare in Cile alla prima spedizione dell’uomo sulla luna e molto altro ancora. Maurizio Galli dispensa con sapiente equilibrio le giuste informazioni sugli eventi storici, affiancandone la portata epocale al potere evocativo di canzoni nate per celebrarli o stigmatizzarli e di altre semplicemente concepite per dare al pubblico una prospettiva critica diversa o, semplicemente, per creare quel senso di solidarietà collettiva che, talvolta, la musica riesce a evocare.
I solchi della storia ha il vantaggio di essere un libro suddiviso in capitoli che stanno in piedi da soli. Dunque, lo si può addirittura leggere partendo dal fondo. Informazioni e aneddoti scandiscono il succedersi delle pagine, rendendole quanto mai interessanti. Volete sapere come reagì la comunità delle grandi personalità artistiche e sportive negli USA al prolungato coinvolgimento bellico del paese in Vietnam? Volete un ricordo del leggendario concerto di David Bowie davanti al muro di Berlino? Vi turba l’idea che l’11 settembre 2001 sia una data universalmente nota per via del crollo delle Torri Gemelle, ma che l’11 luglio 1995, la caduta di Srebrenica, non sia altrettanto conosciuta? E che dire della reazione del mondo musicale ai mesi di lockdown imposto dalla pandemia dilagante? Tutte cose che troverete in questo bel libro.
Ho chiesto a Maurizio Galli di entrare più nel dettaglio, senza togliere il gusto della sorpresa ai suoi potenziali lettori.
Da quale esigenza nasce un libro come questo?
È nato tutto un po’ per caso. Rileggevo la storia di Nina Simone (nel libro pubblicato da Vololibero e anche qui il caso forse ci ha messo lo zampino) e sono rimasto particolarmente colpito dal fatto che alcuni accadimenti – passati in seguito alla storia – come ad esempio la bomba esplosa in una chiesa dell’Alabama frequentata da neri nella quale persero la vita quattro innocenti bambine, l’abbiamo portata a dedicare ogni energia alla causa, al destino del popolo nero al punto da essere indicata come la cantante dei diritti civili. È stato allora che mi si è accesa una lampadina e ho pensato che dovessero esserci altri avvenimenti storici che si legavano con un fil rouge a delle grandi musiche e che sarebbe stato interessante raccoglierli in un libro.
Di eventi importanti e significativi su cui è andata a incastonarsi la creatività, soprattutto in campo musicale, ce ne sono stati tanti. Come ha effettuato la sua selezione?
A dire il vero non c’è stata una selezione vera e propria, tant’è che ancora oggi ogni tanto mi viene in mente un avvenimento storico e un suo relativo brano musicale. Ho incluso sicuramente quelli che mi hanno maggiormente colpito e che in una qualche maniera racchiudevano al loro interno anche un messaggio di speranza, come ad esempio il muro di Berlino: non solo l’orrore di quel terribile manufatto costruito dall’uomo, ma anche, per l’appunto, il messaggio di speranza implicito nell’abbattimento dello stesso.
”The night they drove old Dixie down” di The Band è considerata una delle più belle canzoni dell’età aurea del rock. Che tipo di accoglienza ha avuto, considerato che poteva essere ritenuta becera al Nord e offensiva al Sud?
“The Night They Drove Old Dixie Down”, l’inno a un Sud profondamente segnato dalla guerra civile, è a mio parere una delle canzoni che identificano maggiormente The Band. Tutto sommato ha avuto un’ottima accoglienza da parte del pubblico e della critica, anche se il culmine del suo successo lo ha visto nel 1971 grazie alla reinterpretazione della cantautrice Joan Baez: raggiunse infatti la terza posizione della classifica Billboard Hot 100 negli Stati Uniti. Comunque, voglio svelarle un segreto ma non lo dica a nessuno: è una delle mie canzoni preferite in assoluto.
Com’è possibile che la canzone che forse meglio ha rappresentato il movimento per i diritti dei neri negli USA sia “Blackbird”, una ballata di un gruppo bianco e per giunta inglese come i Beatles?
Non c’è che dire, i Beatles erano talmente “avanti” che, sentendosi partecipi della questione dei diritti civili negli Stati Uniti, decisero di sostenere la battaglia contro le discriminazioni subite dai neri con un brano su Rosa Parks. Tra l’altro i Fab Four erano già scesi in campo contro la segregazione nel 1964, rifiutandosi di esibirsi a Jacksonville, in Florida, in un teatro diviso: da una parte i bianchi e dall’altra i neri. In quell’occasione, i Beatles vinsero la loro battaglia, riuscendo a suonare senza alcuna divisione: fu il primo concerto di sempre davanti a un pubblico non segregato. Un piccolo passo ma decisivo lungo la battaglia per i diritti civili.
Perché la guerra del Vietnam ha prodotto tanta buona musica? E perché “Fortunate Son” dei Creedence ha finito per essere uno dei brani più rappresentativi della controcultura di cui in realtà nemmeno loro si sentivano tanto parte?
A mio modesto modo di vedere, è successo perché la musica durante il conflitto del Vietnam non solo ha saputo, diversamente dalla politica, parlare a un numero sempre crescente di cittadini disillusi, ma è stata in grado di richiamare l’attenzione su quelle “fessure” culturali che iniziavano a venire a galla. Per quanto riguarda i Creedence Clearwater Revival, diciamo subito che grazie al loro sound essenziale e stringato sono stati una delle band che ha saputo maggiormente rappresentare l’essenza del rock and roll anni ’60. Una band che ha per l’appunto degnamente rappresentato l’efficace colonna sonora delle disillusioni dei Sixties. Un esempio calzante è proprio il loro brano “Fortunate Son”, scritto in soli venti minuti. A far “scattare” John Fogerty, il frontman della band, furono le sfarzose nozze tra la figlia del presidente eletto Richard Nixon e il nipote dell’ex presidente Dwight Eisenhower. Tutto ciò accadeva nel dicembre 1968 proprio mentre migliaia di soldati americani venivano mandati a morire in Vietnam! Non sono io… Non sono il figlio di un milionario (un senatore o militare) … Non sono un fortunato È proprio con questo “grido di battaglia” che i CCR hanno saputo catturare i giovani militari scontenti, diventando così la colonna sonora non ufficiale del conflitto in Vietnam.
I disordini durante la convention democratica di Chicago e, soprattutto, la strage alla Kent State University sono stati uno spartiacque nella storia americana recente. Gli USA si sono svegliati bruscamente, rendendosi conto di non essere agli occhi del mondo e dei propri giovani il paese che aspiravano a essere. Come ha reagito la comunità musicale?
Il 4 maggio 1970, giorno in cui vennero uccisi dalla Guardia Nazionale quattro giovani studenti, è sicuramente una data scolpita nella storia del popolo americano. Premesso che dal mio punto di vista “Ohio” è la perfetta canzone di protesta – commovente, memorabile e dal tempismo perfetto – diverse furono le band che sposarono l’idea di una rivoluzione sociale: su tutti i Jefferson Airplane, che urlavano Got a revolution, got to revolution all’interno della hit “Volunteers”. Inoltre, come scrivo nel libro, la sparatoria alla Kent State ha avuto un profondo effetto anche su alcuni studenti che in seguito divennero musicisti, come Chrissie Hynde dei Pretenders, Mark Mothersbaugh e Jerry Casale dei Devo.
Bono, nel disco dal vivo degli U2 Under a blood red sky, presenta “Sunday Bloody Sunday” dicendo che non è una canzone politica. Allora cos’è?
Bono Vox, che ricordiamo aveva undici anni e viveva in uno dei tanti quartieri degradati e malfamati della periferia di Dublino quando accadde il tragico fatto, nonostante il forte sentimento di rabbia provato, aveva una sensibilità che lo portava a odiare violenza, ingiustizia e oppressione. Diversamente da quanto si possa pensare, e molto probabilmente proprio grazie a quella sua sensibilità, non ci troviamo al cospetto di una vera e propria canzone politica o rebel song ma a un brano carico di emotività e completamente contro la guerra, di qualsiasi guerra si tratti. Tant’è che spesso sul palco della band ha fatto capolino una bandiera bianca come presa di distanza sia da quella dell’Irlanda e da quella del Regno Unito.