C’era una volta la Rai, quella degli speciali di approfondimento, dei programmi culturali, dei giornalisti di spessore e degli intellettuali (la Rai di Umberto Eco, Angelo Guglielmi, Andrea Barbato, Piero Angela – l’elenco sarebbe lungo), ma anche degli spettacoli di qualità e di una redazione sportiva di primissimo livello, composta anch’essa da notevoli professionisti, provvisti di almeno due qualità oggi alquanto rare: una solida cultura di base e una personalità del tutto originale, che conferivano un carattere unico ai loro servizi e alle apparizioni sullo schermo.
Tra i numerosi cronisti sportivi della Radio e della Televisione rimasti nel cuore di chi ha avuto la fortuna di conoscerli e di seguirli (Alfredo Pigna, Enzo Tortora, Bruno Pizzul, Adriano De Zan, Piero Pasini, Enrico Ameri, Sandro Ciotti, solo per citarne alcuni), spicca l’indimenticato Beppe Viola, scomparso una grigia domenica d’ottobre del 1982, dopo un Inter-Napoli che aveva commentato per Novantesimo minuto. Lo ricordiamo con quel faccione tondo e un po’ stralunato, col dire arguto e provocatorio che dichiarava guerra alla banalità trionfante in televisione. Un uomo dotato di “uno humor naturale e beffardo”, di “una romantica incontinenza”, come scrisse il suo amico Gianni Brera nell’articolo in cui lo ricordava a qualche giorno dalla scomparsa.
Ma Beppe Viola non era solo un grande giornalista, autore di splendidi articoli (memorabili i suoi pezzi su Linus, nella rubrica “Vita vera”) e di celebri servizi (come l’intervista a Gianni Rivera, condotta su un tram che percorreva le strade di una Milano nebbiosa, realizzata nel dicembre del 1978). Era un personaggio dai multiformi ingegni, provvisto di un inimitabile senso dell’ironia e d’una spiccata creatività: fu paroliere, sceneggiatore, attore, presentatore.
Soprattutto, fu anche originalissimo scrittore, ed è in questa veste che ce lo mostra un volume contenente le sue migliori produzioni narrative, Quelli che… Racconti di un grande umorista da non dimenticare, pubblicato dall’editore Baldini+Castoldi (€ 16, pp. 222).
A leggere queste storie scritte negli anni Settanta si rimane colpiti dalla loro freschezza, come nota la figlia Marina Viola nella prefazione, commovente pezzo autobiografico che impreziosisce il volume, insieme all’introduzione di Gino e Michele (risalente al 1992), al geniale testo della canzone “Quelli che…” e ad un glossario di termini gergali dall’ironico titolo “Tanto per capirci”. Freschezza di sguardo e di stile, sorprendentemente attuale, caratterizzato da un ammirevole equilibrio tra linguaggio realistico e farsesco, dalla prosa fluida innervata da robuste dosi di registri colloquiali e di lessico gergale, da una comicità a tratti trascinante e una notevole inventività metaforica.
Per scrivere così bisogna conservare un assoluto rigore, possedere la consapevolezza del narratore di razza. Il talento a Viola non difettava, era capace di rendere protagonista un panino (lo “special”) o la topografia dell’amata Milano, resa con sentimento e accuratezza storica. Ma il suo segno distintivo è proprio la levità unita alla profondità dello sguardo nel cuore umano, reso con sapide pennellate, a volte con una frase memorabile, un’analogia unica, una parola icastica, spesso gergale, poiché la lingua del popolo ha quella capacità di sintesi e di scavo psicologico che l’idioma standard fatica ad esprimere.
Di stampo bozzettistico o più elaborati che siano, i racconti raccolti in queste pagine sono quindi godibilissimi tranche de vie, “pillole di vita” anche famigliare (come quelli drammatici ed esilaranti sulla Rai, in cui spicca la fulminante “Lettera al Direttore”), illuminanti squarci di un minimalismo ante litteram sulla realtà negletta dei bassifondi, della mediocrità, della quotidianità. Storie che compongono un affresco sociologico e antropologico quanto mai vivido: come Goffredo Parise, Luciano Bianciardi, Dario Fo, Enzo Jannacci e altri, Viola è il cantore di una Milano ormai scomparsa, quella visivamente raccontata nel film Romanzo popolare di Mario Monicelli, del quale scrisse i dialoghi con Jannacci, oltre all’indimenticabile canzone “Vincenzina e la fabbrica”. Una città di nebbie e di osterie, di bar e di bottiglierie, di ippodromi e di stadio, di tram e di palestre di pugilato, di periferie e di banche da rapinare, di navigli e di centri inattingibili, abitata da un’umanità tenuta ai margini dalla vuota e spietata borghesia vincente, lontana mille miglia dalla Milano da bere che ne ha cancellato anche il ricordo.
Rapinatori improvvisati, ladruncoli da strapazzo, violenti, reietti, perdenti, romantici disillusi, borghesucci coi loro meschini sogni nel cassetto, tutti legati a un codice spazzato via dalla modernità: con i loro difetti e gli umori, le piccole e grandi miserie, le cialtronerie e gli slanci, questi umanissimi personaggi entrano dritti nel cuore e nella mente del lettore, stimolando riflessioni sul vivere, sulle storture sociali e politiche che ne determinano l’emarginazione e la sconfitta, come ad esempio nel racconto “In Via Lomellina”, dove entra con prepotenza anche la storia (il dopoguerra, l’abuso edilizio, la scomparsa di un modo di vivere), o in “Terùn si diventa”, dove si affronta il tema del razzismo, o “Il bambino Massimo”, dove riecheggia la stagione del terrorismo.
Racconti scritti per lo più in prima persona, così da facilitare l’immedesimazione del lettore, dagli incipit magistrali, come quello di “Wonderful a me?”: “Come se non bastasse tutto il resto, sono le tre di notte e squilla il telefono”, o del racconto “Il Scimmia”: “Per essere un pasticciere di nome Scimmia sono completamente rovinato”, o “Il baschetto”: “Il colore dei suoi occhi era quello che era, il solito”, o ancora in “La Luisa del sindacato”: “No, a dire la verità, non l’avevo mai presa con la carne in bocca, ma, insomma, sulla Luisa c’erano delle buone voci”. Ma più che citati, questi racconti vanno letti e degustati parola per parola, frase per frase, poiché l’accensione lirica, la battuta fulminante, la notazione geniale, la scena memorabile sono sempre dietro l’angolo.
Sono insomma storie scritte da un uomo “che ha fatto di tutto per non diventare adulto” (Marina Viola), che quindi ha saputo conservare un cuore bambino, una straordinaria capacità empatica che gli ha permesso di fondere uno sguardo puro sui personaggi, sulle vicende e sugli ambienti, con l’acutezza ironica, la profondità di analisi con la levità. È una lettura da cui si esce con l’animo lieto, forse amabilmente immalinconiti, comunque soddisfatti di aver appreso con un sorriso qualcosa sulla vita e su noi stessi.