«Nel Museo dell’audiovisivo Mike Bongiorno sta vicino a Mastroianni» | Giornale dello Spettacolo
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«Nel Museo dell’audiovisivo Mike Bongiorno sta vicino a Mastroianni»

Parla Gianni Canova, un curatore del nuovo istituto che apre a dicembre: «Un’esperienza immersiva tra tv e cinema. Con meno artiste degli artisti perché anche nella cultura l’Italia è patriarcale»

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3 Dicembre 2019 - 15.03


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Chiara Zanini

Il Miac, primo museo italiano del cinema e dell’audiovisivo, aprirà al pubblico in dicembre, a Roma negli studi di CineCittà è in via Tuscolana 1055. Ne abbiamo parlato con Gianni Canova, uno dei curatori del museo e rettore della Iulm – Libera Università di Lingue e Comunicazione di Milano. Vi partecipano l’Istituto Luce-Cinecittà, con Rai Teche e CSC – Centro Sperimentale di Cinematografia, in collaborazione con la Cineteca di Bologna, l’Aamod – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Affiancano il museo il Museo Nazionale del Cinema di Torino, la Fondazione Cineteca Italiana, la Cineteca del Friuli, Mediaset; il patrocinio è della Siae.

Canova, cosa può e cosa deve fare un museo del cinema oggi?
Il Miac è un museo del cinema e dell’audiovisivo, anche se secondo me c’è troppo cinema e poco audiovisivo, infatti il gruppo curatoriale ci sta ancora lavorando. L’apertura sarà a dicembre ma è un museo in progress e la novità rispetto ad altri musei del cinema è l’ambizione per cui io stesso ho accettato questa sfida: fare un museo dell’audiovisivo, anche se è difficilissimo perché tutti quelli che pensano all’immaginario audiovisivo italiano pensano al cinema. Per esempio una sala dedicata ad attori e attrici ha causato liti furibonde fra i curatori: “Ma come, mettiamo Mike Bongiorno accanto a Marcello Mastroianni?” Per quanto mi riguarda, sì. Nella creazione dell’immaginario gli album delle figurine Panini per i maschi italiani della mia generazione hanno contato quanto il cinema, per non parlare dei fumetti da Tex Willer a Dylan Dog passando per Diabolik. Pensi a quanto incidevano sull’immaginario italiano nel Dopoguerra i fotoromanzi e i rotocalchi che avevano un legame molto forte col cinema e con la creazione dello star system italiano. Tutte le grandi dive dei Cinquanta e dei Sessanta non sarebbero state tali se non ci fosse stato questo percorso transmediale. Un attore come Gino Cervi nell’immaginario italiano ha inciso di più per Peppone nei film di Don Camillo o per come ha interpretato il commissario Maigret nella serie – perché c’erano anche allora le serie televisive, si chiamavano sceneggiati – tratta dai romanzi di Simenon? Alberto Lupo, protagonista di serie mitiche della Rai come La cittadella, per almeno un paio di generazioni di spettatori ha inciso molto più di tanti attori del cinema. L’ambizione del Miac è quella raccontare una storia in cui il cinema sia una colonna importante in un insieme di altre suggestioni che hanno costruito quella nebulosa che è appunto l’immaginario italiano.

Con quale obiettivo?
Io sono un manzoniano: il vero come soggetto, l’utile come scopo, il gradevole come obiettivo. Dev’essere un percorso immersivo, emozionale, che riaccende fantasmi e memorie, ma anche un percorso istruttivo. Il museo è collocato tra l’altro nella sede di Cinecittà in cui un tempo si faceva lo sviluppo a stampa delle pellicole, un luogo impregnato di celluloide. Nel corridoio centrale sui cui lati si aprivano i vari laboratori abbiamo costruito una cronologia che parte da fine Ottocento e arriva fino all’Oscar alla carriera a Lina Wertmüller. C’è una grafica, ci sono dei monitor, delle animazioni che renderanno questa cronologia intrigante anche per gli studenti della scuola media. La dimensione prevale perché ci sono stanze di grande fascino visivo. Bisogna rinforzare la dimensione didattico – didascalica: ci stiamo lavorando.

La collaborazione con Rai e Mediaset permetterà di consultare i loro archivi durante la visita?
L’obiettivo è questo. La visita a un museo è una delle poche esperienze che non sono sostituibili per via digitale: è un’esperienza che mette in campo il corpo ed è plurisensoriale. Un percorso di questo tipo è molto emozionale, ma una mostra funziona se si riesce a trasformare l’emozione in qualcosa che resta. In questa sfida nel team curatoriale, con me che sono storico del cinema, ci sono Gabriele d’Autilia, storico, Enrico Menduni storico della televisione, e Roland Sejko, regista e archivista dell’Istituto Luce. Abbiamo discusso molto se aggiungere didascalie a tutti i video o no. Per ora sui vari monitor non ci sono indicazioni, e poi un altro monitor esplicita tutte le sequenze (anche di pochi secondi) e le fonti che ci sono nella sala, anche se rompe un po’ la magia. Alla presentazione alla stampa molti giocavano a riconoscerle. Tutti i testi sono sia in italiano, sia in inglese, e vorremmo studiare un’app o un’audioguida in più lingue.

Ha nominato Lina Wertmüller. Quale spazio ci sarà per le donne del cinema?
Purtroppo non è tanto un problema del Museo, è un problema del cinema, della cultura e della società italiana che ha lasciato alle figure femminili, a parte le attrici… Certo, ci sono donne di statura gigantesca come Susi Cecchi D’Amico, che è tra i cinque sceneggiatori più importanti nella storia del nostro cinema e non viene riconosciuta come tale. Penso anche a Lina Wertmüller, prima donna al mondo candidata all’Oscar per la regia. Pasqualino Settebellezze ebbe varie nomination, eppure in Italia lei è snobbata e a me questo fa molta specie. Quindi anche nel Museo è più lo spazio dedicato ai maschi, ma il Museo riflette la realtà. Il cinema italiano è prevalentemente patriarcale, purtroppo, perché alcune delle cose più interessanti vengono da sguardi femminili, però è indubbio che le donne fanno molta più fatica. Io sono rettore dello Iulm e qui su trenta ordinari le donne sono tre. Sto facendo il possibile per riequilibrare un po’ e ci sono molte resistenze. Il direttore generale è donna e tiene in piedi tutta la baracca. Nella prossima generazione le donne saranno quasi in posizione paritetica.

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