di Alberto Crespi
Il titolo non potrebbe essere più chiaro: “Santiago, Italia”. La citazione di una vecchia trasmissione televisiva andata in onda su Raitre nel pieno di Tangentopoli – “Milano, Italia”, primo conduttore Gad Lerner – forse è casuale ma permette di arricchire i livelli di lettura. Allora, per capire l’Italia, dovevi andare a Milano dove il pool di Mani Pulite operava e dove stavano nascendo fenomeni politici (la Lega, Berlusconi) poi divenuti nazionali. Oggi, per capire questa Italia che pure è figlia di quell’epoca, devi guardare lontano. Santiago è un buon punto per ricominciare. Nanni Moretti, in questo suo nuovo bellissimo e commovente documentario, parla del Cile di Allende, del golpe dell’11 settembre 1973 (sì, c’è anche un 11 settembre nel quale gli Stati Uniti non giocano la parte della vittima) e della stupefacente esperienza dell’ambasciata italiana di Santiago. Ma parla di noi, oggi. Facendo parlare i cileni che allora erano ragazzi, e che oggi sono cittadini italiani, Moretti ci fa percorrere un breve ma potente viaggio dentro noi stessi. Perché noi italiani siamo quel paese, quel popolo, quella società che allora si schierò dalla parte giusta forse più di chiunque altro al mondo. E oggi siamo un paese, un popolo, una società che non vuole più accogliere nessuno, che ha perso tutti i riferimenti politici e ideali di 45 anni fa, che percepisce gli stranieri che giungono da noi in fuga da fame, guerre e dittature come fastidiosi importuni che “ci fregano il lavoro”. Cosa ci è successo, in questi 45 anni? In ultima analisi il film pone questa domanda: sta a ciascuno di noi rispondere.
Permettetemi alcune righe in prima persona. Io sono milanese. Ho lasciato Milano per Roma nel 1985, quando andava in onda “Milano, Italia” vedevo la mia città da lontano, mi chiedevo – già allora – cosa diavolo ci stesse succedendo e mi sentivo quasi fortunato di non camminare nelle stesse strade di Craxi, di Bossi e di Berlusconi. “Santiago, Italia” mi ha riportato indietro di vent’anni, rispetto a “Milano, Italia”. Ci sono tre testimonianze nel documentario che, perdonate, mi hanno commosso. Tre profughi cileni, salvati appunto dalla nostra ambasciata: un uomo che racconta di aver trovato lavoro a Lacchiarella, una donna che si è trovata accolta e benvoluta a Rozzano, un altro uomo che ha fatto l’operaio a Milano e sottolinea che “in ogni posto dove ho lavorato sono sempre stato delegato sindacale dei miei colleghi italiani”. Siamo nella Lombardia profonda, anzi, nell’hinterland milanese: Lacchiarella e Rozzano sono due comuni a Sud della metropoli. È bello vedere come tre persone provenienti dal Sud del mondo si siano felicemente integrate in territori simili. Naturalmente è altrettanto bello sentir raccontare da alcuni cileni la propria felice esperienza nell’“Emilia rossa”, dove molti di loro ricevettero offerte di lavoro appena arrivati in Italia, ed è ovviamente un ricordo caldo, quello di un Pci che fece molto per i profughi sia dal punto di vista pratico, sia sul piano del sostegno politico (ed è superfluo ricordare quanto il golpe in Cile segnò la riflessione politica di quegli anni, per i comunisti italiani). I profughi atterrarono tutti a Roma, ovviamente, e furono ospitati in strutture alberghiere sulla via Aurelia; poi la gara di solidarietà fu potente. Moretti mostra, nel documentario, un intervento di Gian Maria Volonté a una manifestazione per il Cile ed è bello ricordare che l’attore fu tra i più militanti (il documentario non lo dice – non si può dire tutto – ma Giuliano Montaldo mi ha più volte raccontato come il set di “Giordano Bruno”, il film che lui e Volonté girarono appunto nel 1973, fosse pieno di profughi cileni ai quali Gian Maria cercava di procurare lavori, anche come comparse: “Alcuni di loro interpretavano i cardinali dell’Inquisizione e durante le pause delle riprese vedevi questi sudamericani vestiti da prelati che leggevano ‘l’Unità’”).
Uno dei sottotesti fondamentali di “Santiago, Italia” è la volontà di raccontare una storia italiana bella, positiva, coraggiosa. Gli “eroi” del film sono Piero De Masi e Roberto Toscano, che nel ’73 erano due giovani funzionari dell’ambasciata italiana in Cile. Furono loro – in assenza, almeno inizialmente, di direttive chiare da Roma – a decidere di accogliere i profughi e di non mandar via nessuno. I racconti di coloro che si nascosero nell’ambasciata sono, con il senno di poi, addirittura esilaranti: l’ambasciata aveva (ha) un grande giardino circondato da un muro di cinta che all’epoca, in un punto, era alto poco più di due metri. Evidentemente si sparse la voce, perché cominciarono a scavalcare a decine, incuranti dei poliziotti che presidiavano la sede diplomatica. De Masi, nel film: “A un certo punto c’era una tale corsa alle ambasciate da parte di questi cileni che erano impazziti dal terrore e allora saltavano il muro. Non chiedevano neanche, non entravano in maniera normale. Arrivavano, bum, e saltavano dentro. E qui è venuto il mio caso di coscienza, quando ho cominciato a vedere questi ingressi incontrollati io mi sono detto: che faccio? Avevo chiesto al mio ministero di darmi istruzioni su quello che dovevo fare. Naturalmente si sono ben guardati dal farlo. E allora ho deciso di tenerli tutti, di non mandare via nessuno”.
Quando avviene il golpe, nel settembre del ’73, in Italia c’è un governo di centro-sinistra presieduto da Mariano Rumor. Il ministro degli Esteri è Aldo Moro. Forse per i cileni è una fortuna: è vero che all’inizio i funzionari dell’ambasciata non ricevono ordini da Roma, però è altrettanto vero che ben presto arrivano visti e permessi per far volare i profughi in Italia. L’Italia ha salvato molte vite – e sarà bene ricordare che la “junta” di Pinochet non scherzava, che i militanti comunisti e socialisti venivano torturati e ammazzati senza processo. Quella che Nanni Moretti rievoca nel suo film, lasciando la parola ai cileni che vivono nell’Italia di oggi, è un’Italia con un forte senso della solidarietà. “Santiago, Italia” è stato proiettato oggi come film di chiusura del Torino Film Festival e dal 6 dicembre uscirà al cinema, distribuito da Academy Two. Proprio oggi, il Venerdì di “Repubblica” ha pubblicato un’intervista esclusiva a Moretti realizzata da Mario Calabresi. C’è un passaggio che vorremmo riportare, quando il direttore di “Repubblica” gli chiede un parere sull’amministrazione di Roma. La risposta di Moretti non è contingente, tocca un tema secondo noi cruciale: “Tutti si stupiscono dell’incompetenza, ma la si è teorizzata per anni e adesso ne vediamo il risultato. Fare politica è un mestiere ed è anche un mestiere difficile. Quando teorizzi che al massimo si possono fare due mandati, una cosa che io non capisco e che ha contagiato anche il Partito democratico, ti metti immediatamente su una strada che porta al rifiuto della competenza”.
Parole giuste. E le parole, ce l’ha insegnato lui, sono importanti.