Ettore Scola: ricordi e risate restano per sempre | Giornale dello Spettacolo
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Ettore Scola: ricordi e risate restano per sempre

I ricordi, le risate, la vita insieme sono un qualcosa che nessuno ti può togliere. Ettore Scola

Ettore Scola: ricordi e risate restano per sempre
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20 Gennaio 2016 - 00.21


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Ho avuto modo di conoscere Ettore Scola e di frequentarlo a lungo per motivi professionali nell’ultimo decennio. La sua saggezza, la sua ironia, la sua modestia e la sua cortesia erano straordinarie quanto i suoi film. Non amo scrivere articoli per ricordare le qualità delle persone che non ci sono più, e – in questo caso in particolare – non me la sento di farlo avendo avuto anche modo di “dirigere” Scola in due miei documentari: Giovanna Cau – Diversamente Giovane (2011) e Enrico Lucherini – Ne ho fatte di tutti i colori (2014).

Preferisco parlare di Ettore Scola ripubblicando una lunga intervista che mi ha rilasciato all’indomani della morte di Alberto Sordi.



[size=4]Intervista a Ettore Scola[/size=4]

di Marco Spagnoli

[url”@marco_spagnoli”]www.twitter.com/marco_spagnoli[/url]

Il giorno dopo i funerali di Alberto Sordi a Piazza San Giovanni, Ettore Scola parla dell’uomo, dell’attore e dell’amico con un coraggio ed una forza d’animo che – nonostante tutti gli sforzi – non siamo capaci di non invidiare.

Sembra che Alberto Sordi, adesso, appartenga al mondo…
Sì, l’aria ai funerali era quella di un lutto privato di ognuno. Non sembrava di stare assistendo alla celebrazione di un lutto pubblico.

Questo è un caso più unico che raro…

Non era accaduto con altri grandi amici della gente come Gassman, Mastroianni, Anna Magnani o Claudio Villa. C’è quindi da chiedersi perché Sordi sia stato a tal punto vicino alle persone e come abbia fatto a diventare parte di tutti quanti. Un dato ancor più sorprendente se si pensa che lui non ha mai fatto nulla per piacere. E’ vero, si divertiva, ma era soprattutto un disturbatore ed un dissacratore. Sordi è andato sempre contro i luoghi comuni, contro le convenienze. Il pubblico non è mai stato “ricattato” dalla sua simpatia e dalla sua bontà. Credo piuttosto che sia stato ammaliato e colpito dalla sua grandezza come attore e come uomo.

Un elemento straordinario, soprattutto se si pensa che la maggior parte dei film di Sordi sono amari e tutt’altro che “rassicuranti”. Come spiega il successo legato a questo difetto di “buonismo”?

Tutti i suoi film, anche quelli meno riusciti, sono ritratti straziati e laceranti di certi aspetti dell’uomo.

Qual è la definizione di Sordi data in questi giorni che più la disturba?

Quella secondo cui avrebbe rappresentato l’“italiano medio”. Lo trovo sbagliato. Sordi non ha nulla di medio e non ha mai fatto nulla che possa assomigliare alla normalità. Non so da dove arrivi questa idea, ma mi domando come si possa parlare di “italiano medio” mettendolo in relazione con Sordi e tantomeno con Fellini. Forse Pupi Avati e Gabriele Muccino hanno ritratto ambienti familiari e classi sociali in cui si trovano degli italiani medi. In Sordi tutto questo non c’è. Sordi non è un ritrattista, bensì un inventore di personaggi in cui riecheggiano Roma, i difetti nazionali, la furbizia, la pigrizia, il pressappochismo.

Lei è l’unico autore e amico di Sordi che l’ha seguito in media diversi, dalla radio al cinema e – soprattutto – l’unico che ha scritto per e con lui, in un’epoca dove era raro che il regista fosse anche sceneggiatore…

Ho conosciuto Sordi nel 1950. Essere amici per più di mezzo secolo ci ha aiutato a lavorare insieme in un certo modo. Non era un attore facile, non era molto amato dai registi, proprio perché era uno che voleva sempre sapere e capire quello che accadeva al suo personaggio. Voleva entrare dentro il suo ruolo, metabolizzando tutto e cercando così di restituire un’immagine molto personale e meditata del suo personaggio. Molti registi mi hanno detto: “Ho lavorato malissimo con Alberto Sordi”. Io no: ho lavorato benissimo con Alberto, forse, perché ci conoscevamo e ci intendevamo, ma soprattutto perché si fidava e non chiedeva spiegazioni.

In che senso?

Sordi sapeva dove volevo condurlo, sapeva che non intendevo “fregarlo” per ottenere cose che non facevano parte della sua natura o che potevano convenire più a me in quanto regista che a lui come attore. Non ho mai insistito. Proprio perché sono nato con lui alla radio prima ancora addirittura di pensare di arrivare a fare il cinema.

Come vi siete conosciuti?

All’epoca ero collaboratore e – in seguito – redattore del giornale umoristico “Marco Aurelio”. Quando sono arrivato alla Radio ho incominciato a lavorare prima ad “Oplà” con Corrado e Riccardo Mantoni, poi, a “Rosso e Nero” e “Punto interrogativo”. Non esistendo la televisione e nemmeno il cabaret, tutto confluiva alla radio dove Sordi aveva già una sua identità ben precisa. Era noto perché aveva già fatto “I compagnucci della parrochietta” e “il Signor Dice”. Vittorio Veltroni che era un funzionario – autore della Radio, ci fece lavorare insieme dando mezz’ora ad Alberto per una trasmissione intitolata “Il teatrino di Alberto Sordi”. Un’opportunità che nessun altro attore aveva mai avuto prima. Fu Veltroni a presentarci. Eravamo entrambi giovanissimi. Lui aveva trenta anni e io venti.

In quegli anni sono nati personaggi come il Conte Claro e Mario Pio che – a differenza di tanti altri – erano cattivi e – come si sarebbe detto in seguito – politicamente scorretti…

Beh, quella era proprio una matrice “marcaureliana”: il Marco Aurelio era un giornale satirico più penetrante di altri come “Il travaso”. Avevamo l’abitudine ad osservare l’attualità e a sfotterla. Il difetto della testata, però, era quello di un certo qualunquismo. Si sfotteva dovunque senza grande distinzione. All’epoca sia io che Sordi eravamo rimasti colpiti da una trasmissione radiofonica fondata sul patetico e che – mi sembra – fosse intitolata “Sorella Radio”. C’era una certa Maria Grazia Spaziani che conduceva una rubrica del tipo “telefonate a Maria Pia” in cui si riversavano casi lacrimevoli cui veniva sempre fornito un consiglio patetico. Noi inventammo così Mario Pio e le sue finte telefonate degli ascoltatori.

E la Maria Pia originale cosa disse? Stette allo scherzo?

Si disturbò moltissimo. Anche perché le trasmissioni andavano quasi in contemporanea. Una vera con il cuore in mano, con telefonate reali e strazianti; un’altra finta con un imbecille al telefono che rispondeva alle finte telefonate di altri attori come Gianni Agus.

E il Conte Claro?

Lui era stato ispirato dalla Contessa Clara e dalle tante rubriche di posta che in quegli anni impazzavano nei rotocalchi. Soltanto che il Conte Claro era un affamato, un poveretto, un disgraziato. Da ogni caso, da ogni lettera voleva ottenere un tornaconto anche minimo: farsi pagare un caffè, un panino…almeno un supplì.

Dopo tanto successo alla Radio arriva il cinema con lei che presiede alla sceneggiatura di “Due notti con Cleopatra” primo ed unico incontro da protagonista di Sordi con Sophia Loren…

Tutto era abbastanza improbabile: io ho lavorato in seguito con entrambi separatamente. Devo dire che a noi la toga c’ha sempre fatto ridere. La commedia faceva un po’ di tenerezza, perché era molto semplice ed elementare. Lì tutto era giocato sull’eterno doppio. Sordi faceva il legionario romano sprovvisto di tutto, costruito sull’immagine consolidata del compagnuccio della parrocchietta.

Vi divertivate a prendere in giro i kolossal americani in “sandaloni”…

Limitiamoci a dire che a noi la tunichetta con le gambette storte e nude sotto ci ha sempre fatto ridere. Così come i calzari e le corone d’alloro. Sia sui giornali umoristici che alla radio e al cinema non abbiamo mai preso troppo sul serio questi elementi propri della nostra antichità, tenuti, invece, in enorme considerazione dal cinema americano di quegli anni con pellicole come “Quo vadis?”, “Ben Hur” e “Cleopatra”. Noi, invece, quando li abbiamo affrontati, abbiamo sempre dimostrato di crederci poco…

Dopo un periodo di separazione artistica vi siete ritrovati alla fine degli anni Sessanta per “Riusciranno i nostri eroi…”. Che tipo di esperienza è stata?

Quello fu un attestato di amicizia nei miei confronti. Alberto per nessun’altra persona al mondo sarebbe andato per due mesi in Africa e – poi – in una zona difficile come l’Angola che non era certo il Kenya. Avevo girato per un paio di mesi nel continente per cercare una regione opportuna e scomoda.

E’ stato facile lavorare lì?

Tutt’altro! Non c’erano alberghi e vivevamo accampati. Ogni mattina quando ci svegliavamo la prima cosa che mi diceva era: “Ahò, ma ‘ndo m’hai portato?”. Mi rimproverava parecchio e poi scherzava dicendo: “Ma non lo potevamo fa’ a Fiumicino?” Gli piaceva molto il copione, ma dubito che l’avrebbe girato con qualche altro regista.

“Riusciranno i nostri eroi” è una pellicola fortemente esistenzialista…

E’ la ricerca di qualcuno che non si vuole far trovare nell’attesa, peraltro, di ritrovare se stessi. Al personaggio di Sordi di trovare il cognato non gliene poteva fregare di meno. Quando sente che è “raggiungibile”, quasi si arrabbia…

Come è riuscito a gestire gli ego diversi di attori come Sordi e Manfredi che – in seguito nel corso degli anni – si sono tirati più di una frecciata…

Tutto si basa sulla conoscenza. Molti film non convincono, perché ti accorgi che qualcosa non funziona nel rapporto del regista con gli attori. Io conoscendo bene questi interpreti, credo di avere avuto sempre una grande facilità a lavorare con loro, così come loro l’hanno avuta nel lavorare con me.

Qual è il trucco?

Ogni attore ha un proprio specifico. Nella macchina film tu puoi spingere il pedale giusto al momento opportuno. Oppure farlo in modo e momento sbagliati rovinando tutto. Quando hai due attori come Sordi e Manfredi sullo schermo insieme sai che non devono essere “diversi” da come sono di solito. Non è che io li prendessi da parte, dicendo a Sordi: “Guarda che c’è Manfredi con te. Devi essere diverso e fare così e così.” E viceversa. No. Anzi, Ognuno doveva rimanere se stesso con le proprie capacità e con i propri strumenti comici, perché il divertimento nasce proprio da queste diversità. Altrimenti non si fa altro che trasformare degli attori protagonisti in spalle. Tutto diventa meno interessante. Nel 1964 mi trovavo a Buenos Aires con Dino Risi e Vittorio Gassman. Scrivevo la sceneggiatura de “Il gaucho” giorno per giorno mentre loro giravano. Mentre ci trovavamo lì in Argentina, era in tournée “Rugantino”. Così ho detto a Risi: “Perché non ci inventiamo una scena tra Gassman e Manfredi?”. Anche lì è una sequenza riuscitissima tra due italiani all’estero che non vogliono confessarsi di essere dei falliti. In qualche maniera è diventata la seuqneza migliore del film proprio perché trova il suo rilievo grazie alle differenti potenzialità che avevano sia Vittorio Gassman che Nino Manfredi. La scena è costruita proprio sulle differenze tra loro e non sul compromesso.

All’epoca i registi non lavoravano – in genere – alle sceneggiature. Perché?

Per motivi diversi: Steno, ad esempio, faceva così tanti film che non aveva il tempo di seguire anche le sceneggiature; Antonio Pietrangeli – un altro grande regista – assisteva alle riunioni per la sceneggiatura, le leggeva, le rileggeva, diceva la sua. Ricordo che – addirittura – le copiava a macchina, perché voleva così “farle sue” imparandole come un compito a casa. Non è, però, che stava lì a scrivere le scene con noi.

Scrivere per un attore, però, è una cosa che aiuta a costruire l’immagine cinematografica…

Io, Age, Scarpelli e Maccari facevamo proprio questo: studiavamo i caratteri degli attori e dei personaggi. Cercavamo di capire quale scambio poteva esserci tra di essi prima di consegnare al regista la sceneggiatura. Io l’ho fatto sempre anche in seguito. Non saprei mai dirigere una sceneggiatura scritta da qualcun altro. La devo vedere crescere. Per me il lavoro di conoscenza dell’attore è continuato sia come attore che come regista.

Il film successivo “La più bella serata della mia vita” mantiene un tono esistenzialista, anche se le atmosfere subiscono una virata verso il thriller metafisico. L’impressione è che a Sordi lei chiedesse sempre di più, spingendolo al massimo delle sue possibilità artistiche…

Credo che Sordi mi amasse proprio per questo. Tutti gli chiedevano naturalmente di fare dei film in cui si ridesse il più possibile, anche a rischio di qualche ripetizione. Personalmente sono sempre stato convinto che Sordi fosse un attore tragico anche quando era comico. Era una maschera tragica cui affidavo dei personaggi particolari. Certo se facevano ridere, eravamo tutti contenti, però, questo a patto che la materia comica fosse basata su una sostanza tragica, esistenziale. Non basta uno che va in Africa vestito da buffone per fare un film….allora fai “Totò Tarzan” che proprio io avevo già fatto. “La serata più bella della mia vita”, quindi, nasce dall’idea di partire da un vuoto esistenziale, da un’insoddisfazione, dalla paura della morte. Paradossalmente era così che la sua comicità faceva ancora più ridere. In quel film è un “piccolo Berlusconi” talmente fiero delle proprie canagliate da esporle ai giudici inorgoglito. E’ un personaggio tragico degno di Shakespeare: un potente, un ricco che è disperato come – mi auguro personalmente – che anche lo stesso Berlusconi sia. E’ un uomo reso inconsolabile da se stesso, dalla personalissima contemplazione dell’abisso. Non pensa certo né alla salvezza dell’anima, né della mente.

Alberto Sordi era l’unico attore al mondo possibile per personaggi del genere che potevano far ridere (come era nostro dovere), ma anche obbligare a riflettere.

Molto lontano dalla rappresentazione dell’uomo medio di cui si parla tanto oggi…

Ma che uomo medio! L’uomo medio qui non c’è. Se l’uomo medio va in Africa fa solo il safari e basta. Sordi rappresentava l’umanità in certe situazioni di disperazione, di dubbi esistenziali, di solitudine, di dubbi teologici e politici.

In seguito Sordi ha incominciato a dirigere se stesso. Non le sembra che in alcuni film il Sordi regista non sia all’altezza dell’attore? “Fumo di Londra” è una pellicola interessante, ma alcune opere più recenti degli anni Ottanta e Novanta sono veramente poco riuscite…

Si può dire, ma sa anche questo è un ragionamento con molte sfaccettature. Ad esempio di Totò si dice sempre che non abbia avuto dei grandi registi. Ma Totò è Totò proprio grazie al fatto di non avere avuto dei grandi registi. Se avesse fatto soltanto pellicole come “Viva la libertà” di Roberto Rossellini o “Uccellacci e Uccellini” di Pier Paolo Pasolini, non sarebbe mai diventato quel Totò che tutti conosciamo ed amiamo. Forse è proprio il lavoro di un piccolo artigiano come Mattoli ad avere consentito alla personalità di Totò di esprimersi in un certo modo. Anche al di sopra delle trame, delle storie, delle vicende che non era – alle volte – neanche necessario mettere. Anche per Sordi è la stessa cosa. Certo, con Monicelli è stato più rigoroso. Con me ha sempre esplorato un sostrato se non filosofico, certamente esistenziale che non gli interessava, peraltro, cercare nei suoi film. Però, anche nei suoi film c’è sempre qualcosa di straordinario: anche nei più brutti e meno riusciti ci sono sempre un paio di sequenze da salvare e da apprezzare fino in fondo. Si tratta di tasselli memorabili della carriera straordinaria di questo grande artista. Anche come regista ha fatto quello che doveva fare.

Qual è il film di Sordi cui lei non ha collaborato e che, invece, le è piaciuto di più?

Non posso rispondere. Ce ne sono tanti. Il bello della nostra amicizia era che “ci piacevamo molto”. E quindi eravamo anche poco critici.

Quello che ha amato di meno?

“Sono un fenomeno paranormale”. Posso dire di averlo quasi del tutto rimosso…

E’ giusto ignorare “Incontri proibiti”?

Non sono d’accordo. Anche lì ci sono delle scene indimenticabili: il tango che fa lui con la Marini è all’altezza di quello di Jack Lemmon in “A qualcuno piace caldo”. Questo succede anche in letteratura. Basta una sola grande pagina a salvare un intero romanzo. Del resto anche l’ultimo film che abbiamo girato insieme è poco noto, poco visto, poco fortunato e – forse – anche poco riuscito. Anche lì, però, c’era un personaggio di Sordi che si rapportava (da parte sua inconsciamente, da parte mia no) al grande cinema espressionista tedesco. Quel tipo di operazioni si potevano tentare solo con Sordi. Con altri grandi come Manfredi non le avrei tentate, perché sapevo che non mi sarebbe riuscito. Con Alberto ero stimolato a trovare personaggi sempre più difficili per un attore e anche per il pubblico. Se avessimo avuto altro tempo lo avrei spinto ancora in questa direzione.

Negli stessi anni in cui lei era Ministro Ombra del PCI, Alberto Sordi ospitava nel suo taxi cinematografico un notabile democristiano come Giulio Andreotti. Come lo spiega?

La grandezza di Alberto Sordi era proprio questa: tutto era reso compatibile da lui e dal suo spirito. Più di tutti noi, Sordi aveva un grado di follia decisamente maggiore della media. Era imprevedibile. Stare con lui in situazioni ufficiali era perfino imbarazzante. Una volta è capitato che si è alzato facendo una tiratissima arringa in difesa degli alpini non sollecitato da nulla e da nessuno. Soltanto, perché aveva adocchiato un paio di generali…

In quali occasioni Sordi era più “pericoloso”?

Tutte. Anche quelle private di ricevimenti e feste. Era imbarazzante perché Sordi era un pazzo ed un provocatore.

Come si concilia l’immagine del provocatore con quella del conservatore?

Certo, aveva una base cattolica e conservatrice. Quella era la sua cultura. Aveva un grande intuito e sebbene fosse di area democristiana (anche se in pubblico non ha mai parlato di partiti) diceva sempre le cose come stavano. Odiava profondamente i ladri e i “birbaccioni” e più volte – con largo anticipo – mi ha parlato male di personaggi in seguito coinvolti nel ciclone di Tangentopoli. Sordi pur essendo contro la Sinistra e i comunisti, riconosceva loro qualche merito.

C’è un episodio in particolare che ricorda?

Una volta – dopo averlo a lungo pregato – sono riuscito a trascinarlo alla mia sezione del PCI al quartiere Salario. I compagni erano entusiasti della visita e gli hanno fatto un sacco di feste. Quando siamo andati via, mentre lo riaccompagnavo a casa in macchina mi diceva: “So’ proprio gagliardi ‘sti compagni tua. Non credevo mica. ” Con Sordi la politica era meno importante del piano umano e del suo intuito naturale nei confronti della qualità intrinseca delle persone.

Cosa era accaduto alle sue idee dopo la fine della DC?

Sordi si era trovato più volte d’accordo con molti noti esponenti democristiani del passato. So che non amava affatto Forza Italia. Non gli piacevano le persone di questo partito.

Vi siete visti spesso negli ultimi tempi?

No, ci sentivamo soprattutto telefonicamente quasi tutti i giorni. Lui non amava farsi vedere in decadenza. Mi diceva di avere i reumatismi, ma naturalmente c’era qualcosa di più, visto che non ce la faceva neppure a stare in piedi. Volevo coinvolgerlo nel mio ultimo lavoro “Giornalino romano”. Io l’ho aspettato anche fermando le riprese, ma lui mi ripeteva che fino a quando faceva freddo non sarebbe uscito. Mi ero offerto di andare a casa sua. In un primo momento lui ha accettato, poi, mi ha richiamato dicendo che sarebbe stato, forse, meglio aspettare la bella stagione così avremmo fatto questa ripresa all’esterno di casa sua. Non c’è stato il tempo…

Lei ha lavorato con tanti grandi interpreti che purtroppo non ci sono più…

Non sono particolarmente triste quando uno dei miei amici muore, ovviamente se questo accade per cause naturali e non accidentali. Non mi fanno una grande tristezza questi congedi naturali, perché non credo che – alla fine – cambino qualcosa. Il nostro è uno strano mestiere in cui le eredità sono visibili. I ricordi, le risate, la vita insieme è qualcosa che nessuno ti può togliere. Ovviamente il dispiacere sta nel non potere accumulare altri di questi tesori. Accettare tutto questo fa parte del vivere e del sopravvivere. E’ agrodolce come la primavera romana.

Cosa le mancherà di più di Alberto Sordi a livello quotidiano?

Il buonumore. Non ho mai conosciuto nessun altro che abbia avuto un costante buonumore come Alberto Sordi. Alle volte sentivo squillare il telefono: non facevo in tempo a sollevare la cornetta che dall’altra parte sentivo la sua inconfondibile risata. Sordi era pieno di gioia interna che trasmetteva in ogni cosa che diceva. Mi chiamava anche per dirmi: “Hai letto il giornale, hai visto quello? Ma li mortacci sua!” Poi rideva con tutto il suo spirito, perché era convinto in una continuità del senso della vita che andava ben oltre gli eventi della stessa esistenza. Tutto questo mi mancherà.

Tornando ai funerali di Sordi, crede che lui si sarebbe aspettato un evento simile ed un tale bagno di folla?

No, assolutamente. Sordi era umile. Non era mai stato presuntuoso, né arrogante. Quello che è accaduto in questi giorni è per tutti noi un segno. L’ultima volta era successo con Berlinguer. Come la gente vent’anni fa gridava “Enrico!” con le lacrime agli occhi, oggi chiamava “Alberto!”. La cosa che mi ha più colpito è stata che le persone non hanno partecipato ai funerali di Alberto Sordi, ma si sono piuttosto identificati nell’evento. Da San Giovanni tutti quanti si sono portati un pezzo personale di Sordi. Non esiste più un Sordi unico, ma tanti Sordi privati. Alberto Sordi appartiene a Roma e al mondo. Alberto Sordi è di tutti.

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