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87 ore: l'agonia del maestro morto dopo un Tso tra l'indifferenza degli psichiatri

Dopo l'anteprima, il film è in uscita nei cinema di Milano e Roma dal 23 novembre. Il 28 dicembre 2015 sarà trasmesso su Rai3.

87 ore: l'agonia del maestro morto dopo un Tso tra l'indifferenza degli psichiatri
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11 Novembre 2015 - 10.34


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di Elena Filicori

“Se mio zio fosse vivo e avesse raccontato tutto questo, non ci avremmo creduto, la contenzione non era nella cartella clinica, avrebbero cancellato le registrazioni delle videocamere. E invece accadde ed accade. Rivivere questo dolore ha senso perché non si ripeta più”. Grazia Serra spiega il motivo che ha spinto lei e la sua famiglia a rendere pubbliche prima le immagini delle 87 ore di trattamento sanitario obbligatorio che uccisero suo zio, Francesco Mastrogiovanni, nel 2009, e poi ad aderire attivamente alla realizzazione del film che racconta quel dramma, intitolato “87 ore”, appunto, presentato il 6 novembre in anteprima al festival “Arcipelago” al teatro Palladium, e che arriverà nelle sale (Milano e Roma) dal prossimo 23 novembre, e infine su Rai 3 il prossimo 27 dicembre.

Mastrogiovanni, maestro elementare di 58 anni, fu visto sfrecciare nella zona pedonale di Aciaroli, nel Cilento, la sera del 30 luglio 2009, con lo sguardo “perso nel vuoto”. Il giorno dopo un dispiegamento di forze dell’ordine lo andò a prelevare nella spiaggia del campeggio, lo caricò su un’ambulanza che lo portò nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, dove, dopo cinque giorni legato al letto e sedato, morì senza poter essere visitato dai parenti, il 4 agosto. Per questa vicenda furono condannati in primo grado i medici responsabili, e in questi giorni sono in corso le udienze di appello.

Le immagini delle nove telecamere della videosorveglianza dell’ospedale (che sono servite come prova per le condanne), “fredde e algide” vengono utilizzate dalla regista Costanza Quatriglio per immergere in questa situazione completamente spersonalizzante: l’occhio fisso, meccanico, riprende senza commenti, senza voci, l’agonia di un uomo i cui movimenti mostrano la sofferenza, ma in cui gli infermieri appaiono come robot distaccati, bidimensionali, mentre i medici guardano solo attraverso i monitor. Sequenze dure e claustofobiche, da cui si riemerge di tanto in tanto, in una boccata d’aria, con il rumore del mare e della natura cilentana, che si contrappone alle inquadrature fisse dell’ospedale.

“Una sfida ostica e difficile far parlare la sconcertante evidenza di un’immagine, che cancella con un colpo di spugna il cinema, fondato sulla relazione”, racconta la regista di “Col fiato sospeso”, coinvolta nell’avventura da Luigi Manconi, che con l’associazione A buon diritto ha seguito fin da subito la vicenda e cercava iniziative per sollecitare l’opinione pubblica su questo tema, poco fiducioso sugli esiti del processo. “Le telecamere riprendono, reificano le persone, ma poi solo l’occhio umano può osservare, chiedersi il perché di quei segni, di un trattamento disumano – continua Quatriglio – ed è lo sguardo del medico legale. Quell’uomo è stato prelevato dal mare e ritorna al mare, per “annegamento interno”, nell’indifferenza”. Il racconto si chiude con la telecamera fissa che inquadra il letto ormai vuoto, a cui è stato tolto anche il materasso, pulite le macchie di sangue, lucidato il pavimento.

“Il film racconta solo gli ultimi giorni di vita di mio zio – continua Serra – non la sua vita. Durante il processo mi si avvicinò un uomo, era il compagno di stanza, e mi disse che se era vivo era grazie a mio zio, perché poi fu chiuso quel reparto, emerse la verità. “Salendo sull’ambulanza ci disse ‘non fatemi portare a Vallo, lì mi uccidono’, e abbiamo capito dopo. Evidentemente era già stato legato in passato (subì tre Tso fra il 2002 e il 2005, ormai era marchiato), ma se ti viene calpestata così la dignità te ne vergogni, e non lo racconti. Eppure ci sono ancora più di 300 reparti così, la maggioranza a porte chiuse. Ho un rimorso che mi logora, essermi fidata del medico che non mi fece entrare quando cercai di visitarlo. Io non sapevo che avevo diritto di entrare, vorrei che ogni familiare non fosse all’oscuro come lo fui io, che ogni paziente sapesse di poter chiedere a un avvocato di opporsi”.

“C’è una necessità indifferibile della consapevolezza dei propri diritti e della forza di farli valere – aggiunge Manconi -. Uno dei medici condannati era il firmatario di un Tso in cui è morto un altro paziente la scorsa estate in provincia di Salerno, e anche lì i familiari furono tenuti fuori. Un altro morto di Tso è avvenuto nelle campagne padovane, mentre Andrea Sordi è morto in un parco di Torino mentre lo bloccavano con una mossa vietata perché crea una compressione toracica che può avere esiti fatali. A parte l’impreparazione dei vigili e il disastro della psichiatria, nel senso comune è in atto un processo regressivo, per cui essere matto è un capo d’imputazione, una colpa, e il Tso è applicato come un mandato di cattura”. All’inizio del film una testimone racconta di come i megafoni della guardiia costiera dicessero “Allontanatevi, è in corso una caccia all’uomo”. “Il trattamento sanitario dovrebbe essere a tutela del paziente, non la causa di morte”, aggiunge Grazia Serra.

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