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Alberto Fasulo: in Genitori racconto la disabilità, senza mostrarla

Intervista al regista che presenterà il suo film al Festival di Locarno il 10 agosto: la pellicola sarà poi nelle sale da autunno.

Alberto Fasulo: in Genitori racconto la disabilità, senza mostrarla
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1 Agosto 2015 - 18.23


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“Un film sulla disabilità, in cui però la disabilità non si vede, ma si scopre attraverso le parole e i racconti di 13 famiglie. Un film, soprattutto, sulla forza particolare che mi ha avvolto in quella stanza”: così Alberto Fasulo, friulano, classe ’76, per la terza volta regista di un lungometraggio, ci presenta il suo nuovo film, “Genitori”, che sarà presentato il 10 agosto e Locarno e sbarcherà nelle sale il prossimo autunno. Già noto al pubblico come autore di Rumore bianco (2008) e Tir (2013), quest’ultimo vincitore del Marc’Aurelio d’Oro per il Miglior film al Festival di Roma, Fasulo ci racconta come è nata e come si è sviluppata questa nuova idea, sostenuta dalla produzione Nefertitifilm e da Rai Cinema e distribuita dall’Istituto Luce Cinecittà.

Perché hai scelto di portare sul grande schermo proprio la disabilità?

La mia relazione con questo tema è da sempre: dal servizio civile, in particolare, che ho svolto in un istituto per persone disabili. Ma l’incontro fondamentale è stato, recentemente, quello con un gruppo di 13 famiglie, che si incontrano periodicamente a San Vito al Tagliamento (PN), per confrontarsi e sostenersi: un gruppo di auto mutuo aiuto, come si definisce tecnicamente. Sono loro, queste famiglie e soprattutto la forza che ho sentito, quasi magicamente, la prima volta che le ho incontrate, i protagonisti del film. E’ un gruppo attivo da 20 anni e hanno fatto molto sul territorio: io sono entrato in contatto con loro nel 2010.

In quale occasione?

Nel corso di un cineforum sulla disabilità che avevano organizzato, nel 2010 videro insieme un film americano e, come sempre, ne parlarono tra loro: era una storia di totale e piena riabilitazione, in cui la disabilità, insomma, veniva superata. Condivisero impressioni e perplessità: come familiari di disabili per così dire “irreversibili”, non si sentivano rappresentati. Allora mi contattarono, tramite l’assistente sociale che li seguiva. Andai ad ascoltarli e, nel momento in cui entrai in quella stanza e iniziai a sentire le loro esperienze, accadde come una magia: sentivo una forza che mi parlava di tenacia, non di pietismo. E sentivo un senso civile che andava oltre la disabilità, un’energia rappresentativa anche per molti altri contesti. Fu così che iniziati a frequentare questo gruppo ogni 15 giorni.

E l’idea del film?

Venne fuori piano piano, mentre mi chiedevo come fosse giusto affrontare il tema, cosa raccontare e come, finché ho messo a fuoco ciò che mi aveva colpito fin dall’inizio: quello scambio diretto e sincero che avevano tra loro, affrontando insieme questioni fondamentali non per loro soltanto, ma per ogni genitore: l’autonomia, la crescita dei figli, la sessualità. Allora ho deciso: avrei provato a prendere ogni spettatore e metterlo in quella stanza, per regalargli la forza di questo gruppo. Ed è questo che il film intende fare.

Quindi non sei entrato nelle loro case, non hai mostrato i loro figli e fratelli?

No, sono rimasto nella stanza, ho raccontato la disabilità senza farla mai vedere. E’ un film che mi ha sorpreso tanto, sia nel farlo, allora, sia nel ritrovarlo, adesso. E’ un film che resta in una stanza ma porta lo spettatore a vedere tutto ciò che viene evocato, contando sulla sua immaginazione.

Chi sono queste famiglie? E che realtà vivono?

Sono tutte situazioni molto diverse tra loro. Ci sono genitori che ormai hanno perso il figlio disabile ma continuano a frequentare il gruppo per sostenere gli altri. Ci sono fratelli che dopo la morte dei genitori hanno preso il loro posto all’interno del gruppo, per portare avanti il loro impegno. E c’è un genitore che per 12 anni non è uscito di casa, per via della disabilità del figlio: e che solo grazie al gruppo è riuscito a rompere il silenzio e l’isolamento. Pensare che questo film possa entrare in quelle case, raggiungere chi vive esperienze come questa e dire a queste persone che qualcuno è pronto ad ascoltarle ed aiutarle: questo, per me, è il vero senso e lo scopo del film. Nonché il suo premio più importante.

E il film, prima ancora di uscire, sta già suscitando un grande interesse proprio da parte delle famiglie con disabilità. “Ringrazio il regista e mi complimento con lui – spiega Giulia Fesce, mamma di un ragazzo disabile – Non ho visto il film, ma ho letto che mette a fuoco la relazione d’aiuto tra famiglie, la loro capacità di confronto, scambio e sostegno reciproco: una questione per me fondamentale, di cui si parla troppo poco”. E proprio leggendo le prime notizie sul film, Giulia ha pensato di “rispolverare un mio vecchio progetto, che ho sempre in mente, qui a Numana, insieme alla mia associazione Orizzonte Autonomia: un’idea molto semplice, la stessa che ha avuto il gruppo di genitori protagonista del film. Genitori che si confrontano e quella rete che potrebbe servire tutta la vita. Io ho una sede dove poter organizzare gli incontri in maniera del tutto informale e semplice, e conosco parecchi genitori – continua Giulia – Purtroppo so anche che c’è reticenza, diffidenza, voglia di confinare la disabilità ai momenti di riabilitazione o terapia, cercando poi di vivere la vita ‘fuori’ in maniera normale o addirittura cercando di accantonare alcuni pensieri. Però in questi giorni sto ricevendo diverse adesioni e ho fiducia che, complice anche lo spunto offerto dal film, il progetto possa vedere la luce”. (cl)

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