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Quando il cinema monta a cavallo Oristano: rassegna del film western

Dal 20 al 24 ottobre la struttura accogliente dell’Unla di Oristano ha ospitato il consueto appuntamento del seminario “Parliamo di Cinema”

Quando il cinema monta a cavallo Oristano: rassegna del film western
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1 Novembre 2014 - 09.30


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di Mario Salis

In una società percorsa quotidianamente da colpi di scena, da effetti speciali, dalle news che invecchiano solo di pochi secondi. Dalle ultime, ma solo per poco tempo, trovate della comunicazione multimediale. Chiedersi oggi chi è più potente il cinema, la radio oppure i giornali, si rischia di essere guardati con una sorta di sospetto misto a derisione.

Negli anni Trenta, laddove troppe domande destavano la stessa prima sensazione, col pericolo di incorrere in qualche seria conseguenza, la politica di fascistizzazione della società italiana si dispiegava nell’intero Paese senza incontrare opposizione. Il cavalier Benito Mussolini non nutriva alcun dubbio quando ebbe a dire nel 1922, la cinematografia è l’arma più forte. Fu così che tre anni dopo nazionalizzò l’Unione Cinematografia Educativa alias l’Istituto Luce: documentari, cortometraggi, cinegiornali che immortalano, il duce pilota, agricoltore, cavallerizzo. Inesauribile nelle performance che dovevano farne un idolo acclamato. Quella iconografia ossessiva ci mostra a poca distanza dalla Marcia su Roma, il duce a cavallo alla testa delle sue milizie mentre si lasciano dietro il Colosseo.

Pare fu il pretesto per far scrivere a Curzio Malaparte: sorge il sole, canta il gallo, Mussolini monta a cavallo. Chissà se nella penna del poliedrico e controverso genio del Bisenzio s’insinuasse di più una solerte riverenza od una prematura ironia. Il Duce non proprio un esempio da seguire nell’arte di equitare per la disperazione del suo istruttore, in effetti si sottoponeva malvolentieri a questo rito mattutino nel pur comodo maneggio di Villa Torlonia. Del resto, si esibiva in goffi rinvii col pallone verso la giovane Edda, con tanto di stivaloni e lucenti speroni mentre già sostituiva la vetusta cavalcatura con l’audacia delle imprese aviatorie. Ma questa è un’altra storia, e sappiamo anche come è andata a finire.
Quando invece è il cinema ad issarsi sulla sella, che sia di slancio acrobaticamente fino all’arcione, oppure attraverso una lenta sequenza di ascesa su per la staffa, l’inquadratura sempre quella: praterie sconfinate senza soluzione di continuità con l’orizzonte, interrotte appena da mandrie fumanti, di lì a poco insidiate dalle lance e dalle bellicose penne degli immancabili indiani, confinati prima ancora che nelle anguste riserve, sui versanti strategici che preludono all’attacco ululante ai danni di una pacifica carovana di coloni, che intanto gli occuperà le loro terre mentre già si sente la carica risolutrice del settimo cavalleggeri.

Dal 20 al 24 ottobre la struttura accogliente dell’UNLA di Oristano ha ospitato il consueto appuntamento del seminario “Parliamo di Cinema” che tuttavia non ha deluso le aspettative di un pubblico affezionato e competente: “Uomini a cavallo” – il western. Curatore della rassegna una vecchia conoscenza il Prof Bruno Fornara con un curriculum di tutto rispetto: critico cinematografico di “Cineforum”, docente di cinema alla Scuola Holden di Torino, collaboratore del Torino Film Festival, componente del gruppo dei selezionatori per la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
Quasi cinquemila pellicole girate tra il 1929 con l’avvento del sonoro e gli inizi degli anni Settanta, anche se a scadenza orami sporadica, si candida ben presto a diventare qualcosa di più di una corrente passeggera o di un filone più o meno colossal, inaugurando un’autentica epopea quella del West, con la vasta galleria dei suoi personaggi, taluni entrati nella gergalità comune: lo sceriffo incontrastato dominus del villaggio, solo più tardi si saprà di essere nominato piuttosto che eletto. Non sempre dalla condotta adamantina per l’ombra imbarazzante dei suoi interessati sostenitori. Infatti, di tempi non molto lontani si è parlato al Nord come al Sud di Sindaci sceriffo – piuttosto imbarazzante per chi si dichiara diretto discendente di Alberto da Giussano. Il Giudice è quasi sempre itinerante, come le vecchie nostre Preture, eppoi arriva a giochi fatti col sangue già asciugato, come si conviene ai vincitori. Il saloon con quello sbattere disordinato di porte, con scalmanati che salgono sopra i tavoli li ritroviamo anche in assisi più blasonate con tanto di rissa e parapiglia poco protocollari. Le donnine – poco correct – sarebbero le moderne escort.

Un set con tutti gli ingredienti di una società ancora divisa tra buoni e cattivi, tra ricchi e diseredati. Chi per censo, od al seguito degli effetti devastanti di una guerra civile, come se ce ne fossero di meno civili. Il Cinema Western, è anche un modo di raccontare la storia di un grande paese sconfinato in continuo movimento, che si colloca tra la fine della Guerra di Secessione e il principio del nuovo secolo. Combattuta tragicamente dal 12 aprile 1861 al 9 aprile 1865 laddove vinti e vincitori rimangono tali come resteranno per sempre i e sudisti ed i nordisti , chi a favore e chi contro la schiavitù. E durerà anche quando le divise consunte dei reduci scompariranno dietro le teche dei musei della Storia dell’Indipendenza Americana. La voce fuori campo di Fornara che commenta gli spezzoni dei film, non ha l’effetto fastidioso delle interruzioni che sopportiamo oggi alla televisione, semmai inquadra il contesto storico e sociale con i piacevoli aneddoti di scena e dei protagonisti.
Il Western percorre le sue tappe, vivendo le sue stagioni: classico, di vendetta, autunnale, quello perfetto, più diradato nel tempo con Clint Eastwood o Kevin Costner che segna la fine del genere. Riuscendo sempre più difficile aggiungere qualcosa di nuovo. Certi film svolgendosi in un contesto storico ben preciso, diventano una metafora contemporanea. E’ il caso di Soldier Blue – Soldato Blu – ispirato al massacro di Sand Kreek nel Colorado il 22 novembre 1864 laddove uno squadrone del Colorado Cavalleria con in testa la bandiera a stelle ed a strisce, incurante nel suo travolgente incedere di quella bianca dei Cheyenne, cancellò per sempre una colonia di indiani. Macchiando l’onore militare in modo così infamante che il capo di stato maggiore dell’esercito americano – manco a dirsi: Nelson Miles – lo definì l’atto più vile ed ingiusto di tutta la storia americana. Un’indimenticabile ed affascinante Candice Bergen prestò il suo volto ad uno spartiacque della storia americana: la contestazione per la guerra nel Vietnam figlia di quella in Corea qualche anno prima, come se la società americana non riuscisse a vivere senza, e che oggi la vede occupata su vari fronti strategici del globo, anche se ha cambiato denominazione per diventare prima guerriglia ed oggi terrorismo internazionale.
Gli Yankee dovettero sopportare qualche intromissione nel loro filone cinematografico, a minacciare l’esclusiva il cinema francese e quello italiano. Uno su tutti Sergio Leone, con tanto di indimenticabili colonne sonore. Sequenze che hanno fatto la storia, prima ancora del film di quella del cinema. Attori nostrani per niente a disagio in quei ruoli da cow boy tanto da essere chiamati sella d’argento come Giuliano Gemma. Senza ricorrere nelle scene più rischiose alle provvidenziali controfigure, come facevano sempre più spesso i divi americani, costretti com’erano ad ottemperare a rigidi clausole contrattuali, anche quando non mancavano il coraggio misto ad incoscienza.

Da sottolineare la carrellata dei registi, uno su tutti: John Ford quattro Oscar alla Regia. Idealista, romantico ed una spina sul fianco per i giornalisti che dovevano affrontare con lui il calvario di un’intervista, non proprio facile
Admiral Ford recita l’effige nella sua tomba, gravemente ferito ad un occhio nella battaglia di Midway, nel 1943 il presidente Nixon gli tributò nel 1973, la promozione ad ammiraglio, pochi mesi prima della sua scomparsa. Lo stesso dinoccolato James Stewart anch’egli di origini irlandesi, sopravvissuto a tante imboscate sul set alle frecce dei Sioux come al piombo dei malfattori di frontiera, si congedò come generale di brigata aerea dell’Air Force americana.
Può capitare che le Colt tacciono, con quel fischio finale che si disperde nel vuoto e con il sinistro effetto eco del deserto. I cavalli no. Sfiniti anche quando l’attore protagonista impietosito gli fa da spalla al suo fianco, si contendono sempre la scena. Il cavallo da queste parti è di casa, non si tratta però di apaloosa o del celebre quarter horse. Comunque attori di diritto, non fossa’altro perché sostengono le stelle del cinema.
Il novenario di San Salvatore, in piena Penisola del Sinis fu teatro di scena di alcuni western in salsa nostrana, oggi dei veri cult. Tra cui Giarrettiera Colt con l’avvenente Nicoletta Machiavelli, i cavalli impiegati mostravano le fattezze inconfondibili della nazionale tiro agricolo pesante, che dal trotto difficilmente rompevano al galoppo come mostrano le scolorite sequenze. Poi i nomi che si davano ai cavalli nel Sinis erano intraducibili come Conche Ferru o la più mite Vernaccia. Ma il cinema sta sulle corde del noto centro lagunare. “Una piccola impresa meridionale” è il titolo del recente film del simpatico Rocco Papaleo, girato nel Faro di Capo San Marco ma con qualche scena anche a Terralba. Non senza qualche polemica, dapprima la ricerca di comparse prive dell’accento sardo, poi la promessa della conferenza stampa di presentazione in loco, svoltasi invece a Roma. Ma c’è chi giura che tra il cineasta ed i crabarissi sia pace fatta.

Ma non tutti gli attori si dimostrarono provetti cavalieri come invece John Waine che sfiorando i due metri di statura, si affidava a monumentali esemplari irlandesi e Ronald Reagan seppur di seconda fila, da presidente degli Stati Uniti si prese la sua piccola rivincita. Ricevendo gli uomini di stato italiani si divertiva a chiedergli come sta Caprilli? Di rimando: De Mita, Spadolini, Fanfani sorrisetto imbarazzato od addirittura, non c’è male. Il capitano di Cavalleria Federico o meglio Federigo Caprilli ideatore della monta naturale moderna, impropriamente chiamata monta inglese, era deceduto nel lontano 1907. A dare la risposta giusta, manco a dirlo, un certo Giulio Andreotti noto anche come frequentatore degli ippodromi italiani, appena libero da altri impegni, uno solo, quello di stare al Governo

Un pubblico costantemente presente, attento e composto come non mai nelle comuni multisale, senza visibili segni di stanchezza dalle 16 alle 20 ed oltre, non è facile trovarlo. Uno sforzo organizzativo del Centro Culturale che fa invidia a qualche altro capoluogo, smentisce i luoghi comuni su una città assonnata, comodamente sotto traccia.
Purtroppo una sorta di Far West si scatena a sera inoltrata nelle immediate pertinenze dello stabile occupato dal Centro UNLA, peraltro situato in un parco pubblico, con visibili segni di degrado; la manutenzione degli esterni – di competenza regionale – latita incurante delle infiltrazioni ad opera dell’acqua piovana. Può bastare che il Comune dichiari la sua incompetenza, la Regione la propria indisponibilità? Indiani non se ne vedono, e come si potrebbe, dai lontani canyon del Montiferru. La travolgente carica del “Settimo” dal vicino galoppatoio de S’Arrudia dovrebbe poi ingloriosamente incunearsi nella già precaria pista ciclabile. Uno sceriffo? La sua buona stella, Signor Sindaco ci pensi lei! Il cinema è ancora oggi, come la cultura, un’arma potente di visibilità ed in tal caso di riconoscenza, verso chi si prodiga a suo favore.

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