Di Leonardo Antonelli.
La prima puntata de “La Sposa” su Rai 1 che ha visto come protagonista Serena Rossi ha fatto un boom di ascolti con oltre il 26% di share e quasi 6 milioni di telespettatori, ma il boom è anche il rumore delle polemiche che ha scatenato sui social.
Dalla Calabria al Veneto (le due Regioni in cui è ambientata la fiction) si è levato un polverone di critiche per come gli sceneggiatori e soprattutto il regista Giacomo Campiotti abbiano dato una rappresentazione distorta, inverosimile e per certi aspetti denigratoria delle condizioni di vita e di lavoro in quelle terre negli anni ’60, periodo storico in cui è ambientata la serie.
Addirittura esponenti politici e associazioni locali sia calabresi che venete si sono esposte ed hanno bocciato all’unisono il lavoro di produzione e di sceneggiatura, pur complimentandosi con l’interpretazione degli attori e in particolare di Serena Rossi nei panni della sposa per procura, Maria.
Ma perché tanto rumore per una serie che ha voluto raccontare un passato non molto felice della nostra storia recente?
Storie così diffuse e comuni nella società di 50 anni fa che hanno un carico emotivamente forte e che si intrecciano con i sentimenti più profondi, tra cui spicca il dolore e la sofferenza, non possono essere raccontate con superficialità tralasciando dettagli che non sfuggono ad un telespettatore attento e sensibile al politicamente corretto. (Un progetto simile ma di straordinaria precisione narrativa e coinvolgimento emotivo è ad esempio “La Vita Promessa” di Ricky Tognazzi).
Effettivamente “La sposa” è piena di stereotipi e luoghi comuni che viene naturale ripudiare, i quali, seppur aiutano lo spettatore a riconoscere il contesto nell’immediato, sono esasperati a tal punto da diventare grotteschi (La scena della nebbia in Veneto all’arrivo di Maria è paragonabile all’arrivo di Alessandro Siani a Milano in “Benvenuti al Nord”).
I veneti in particolare se la sono presa per la loro immagine che ne viene fuori dalla serie, un popolo misogino, che lavora fino allo stremo al pari di un mulo e xenofobo.
Il presidente del Consiglio regionale del Veneto Roberto Ciambetti ha affermato: «La serie è un falso storico che nuoce invece al racconto di una tragedia vissuta da molte italiane: paradossalmente i suoi cliché grotteschi e stereotipati mettono in ridicolo non solo i vicentini o i veneti, ma anche i calabresi e le donne calabresi e chi visse quella stagione».
Ma anche i calabresi si sono fatti sentire con rimostranze e perplessità, l’ex presidente facente funzioni della Regione Nino Spirlì ha così commentato: «Parlano una strana lingua che non corrisponde a nessuna delle lingue di Calabria. I matrimoni per procura si facevano al limite per terre lontane (Americhe, Australia, Belgio… ). Forse, alcune delle nostre donne sono partite per il Piemonte, o la Valle d’Aosta e la Liguria, dove si erano già installati gruppi di calabresi, ma certamente non per il Veneto, che era regione depressa più della Calabria».
Certamente gli sceneggiatori hanno fatto riferimento ad un passato realmente accaduto e che per motivi di produzione hanno riportato soltanto un lato della storia che non corrisponde al tutto (le discriminazioni nei confronti di coloro che provenivano dal sud, il padre-padrone che decide vita morte e miracoli della sua famiglia quando ancora esisteva la patria potestà, la povertà estrema e la mancanza di lavoro nel mezzogiorno), ma non si può dire, con un velo di ipocrisia, che queste condizioni non siano esistite o che siano state frutto soltanto della fantasia della produzione.
Per rendere la fiction avvincente e per coinvolgere maggiormente il pubblico sarebbe stato più congeniale raccontare una storia vera, arricchita da dettagli più o meno verosimili, ma con un filo narrativo su cui poggiare l’intera sceneggiatura per avere un quadro più nitido e privo di fastidiosi fronzoli romanzeschi.