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Grazia De Michele: “La retorica su Nadia Toffa guerriera contro il cancro fa danni”

La storica e attivista ha fondato un blog collettivo dopo una diagnosi di cancro al seno: “La retorica scarica sui singoli la responsabilità della malattia e del suo esito. Tanto più quando sono donne”

Grazia De Michele: “La retorica su Nadia Toffa guerriera contro il cancro fa danni”
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12 Agosto 2020 - 16.19


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di Chiara Zanini

A un anno dalla scomparsa, i palinsesti Mediaset celebrano Nadia Toffa, la conduttrice che dopo aver scoperto di avere il cancro aveva tenuto un rapporto sempre più stretto con i suoi followers. Ne abbiamo parlato con Grazia De Michele, storica e attivista che nel 2012 ha fondato un blog collettivo chiamato Amazzoni Furiose, attraverso il quale raccoglie esperienze di donne con diagnosi di cancro, allo scopo di fornire una narrazione diversa di questa condizione.

De Michele, cosa l’ha portata ad aprire il suo blog?
Nel 2010 ho scoperto di avere un cancro al seno. Avevo trent’anni e nessuna familiarità. Continuavo a chiedere ai medici come fosse possibile una cosa del genere e la riposta era sempre la stessa: «è impossibile saperlo». Allo stesso tempo, però, venivo rassicurata sul fatto che sarei guarita. Sono una storica, il mio lavoro è spiegare perché gli avvenimenti si verificano in tutta la loro complessità e quindi le risposte dei medici sull’impossibilità di conoscere le cause della malattia non mi soddisfacevano. Non riuscivo a capire come, data l’assenza di questa informazione di non poco conto, potessero essere così certi che ne sarei uscita viva. Inoltre, medici, familiari e amici mi invitavano a mantenere un atteggiamento ottimista e a vedere la malattia come un’esperienza di crescita e miglioramento. E davvero non mi era chiaro come sospendere la mia vita per un anno e mezzo per via delle terapie a somministrazione ospedaliera, anni di ormonoterapia e soli 30 anni di vita sana potessero migliorarmi. Sentivo il bisogno di un punto di vista diverso e l’ho trovato in un gruppo nutrito di blogger e attiviste nordamericane, colpite anche loro dal cancro al seno, che non solo avevano le mie stesse perplessità, ma avevano fatto di queste questioni un terreno di battaglia politica di durata pluridecennale. Visto che in Italia di tutto questo dibattito non era arrivato neanche l’eco, nel 2012 ho deciso di aprire il blog, diventato collettivo quando si sono unite a me altre donne, con l’intento di rendere questo patrimonio di informazioni e riflessioni fruibili anche al pubblico italiano.
Lei ha scritto che nella vicenda di Nadia Toffa ha visto molta retorica.
Nadia Toffa è morta di cancro a soli 40 anni. L’aspettativa di vita per le donne in Italia supera gli 80 anni e la speranza di vita in buona salute supera i 65. Ha subito un’ingiustizia enorme. Eppure il giorno in cui la sua morte è stata annunciata numerosi esponenti politici, inclusa l’allora ministra della salute Giulia Grillo, ne hanno esaltato sui social le doti di “guerriera” che ha affrontato la malattia sempre sorridente e con coraggio. Insomma, per chi dovrebbe tutelare la nostra salute, innanzitutto non facendoci ammalare o almeno offrendoci delle cure salvavita quando succede, morire di cancro a 40 anni è una cosa perfettamente normale, e l’unica cosa su cui vale la pena soffermarsi è lo spirito con cui si affronta un’ingiustizia di questa portata. Si tratta di un dispositivo autoassolutorio: la retorica dei malati di cancro guerrieri di fatto scarica sui singoli individui la responsabilità della malattia e del suo esito, negandone la dimensione collettiva, politica. Quando si tratta di donne poi, la “guerriera” deve non solo “combattere” fino alla fine, ma rispettare anche i canoni della femminilità. E, se è sposata e con figli, deve continuare a svolgere il proprio ruolo di moglie e madre esemplare. La negazione della dimensione politica della salute non riguarda solo il cancro, del resto: basti pensare a quello che è successo con il Covid e la colpevolizzazione di runner, bambini e adesso giovani irresponsabili per la diffusione del virus, mentre si tace sulla mancanza di campagne serie di test e contact tracing su tutto il territorio nazionale. Per non palare poi del fatto che delle origini della malattia, dei salti di specie dei virus, che sono sempre più frequenti a causa di deforestazione, cambiamento climatico e commercio di animali selvatici strappati al loro habitat non sembra interessare a nessuno.
Lei parla di diritto alla salute contrapponendo a questo espressioni come “marketing del cancro al seno” e “industria del cancro”.
Mi limito a riportare quanto vanno dicendo da anni attiviste e attivisti, scienziate e scienziati sociali, soprattutto in Nord America. Il cancro al seno è l’unica malattia ad essere stata trasformata in un vero e proprio brand per vendere ogni sorta di prodotti, dai cosmetici alle automobili, con la scusa di devolvere parte del ricavato delle vendite – nella maggior parte dei casi si tratta di quantità infinitesimali – a una non meglio precisata ricerca sulla malattia. Le ragioni sono abbastanza semplici: stiamo parlando della possibilità di esporre seni femminili nudi, sempre sani e sodi, per fare pubblicità ai prodotti. Inoltre, sono le donne a prendere le principali decisioni di acquisto nelle famiglie. Non di rado i prodotti venduti suppostamente “per la causa” contengono sostanze correlate col rischio di ammalarsi: l’associazione statunitense Breast Cancer Action definisce questo fenomeno pinkwashing. Il cancro al seno è oggetto di una sovraesposizione rispetto ad altri tipi di cancro meno glamour, come, ad esempio, il cancro al pancreas, nonostante si preveda che questa neoplasia così aggressiva – su cui si fa pochissima ricerca e di cui anche tra gli oncologi in pochissimi vogliono occuparsi – diventerà la seconda causa di morte oncologica entro il 2030. Credo così sia più chiaro quello che si intende per “industria del cancro”: intorno al cancro ruotano gli interessi di molti attori, alcuni anche inimmaginabili, come le case di cosmetici. Alla malattia contribuisce l’esposizione involontaria a sostanze prodotte dall’industria. La diagnosi, le terapie, gli screening costituiscono un bel giro di affari. L’industria del cancro è, insomma, un sistema in cui gli interessi di tutti – tranne quelli delle persone e dei pazienti – hanno la priorità. E per interessi non mi riferisco solo a quelli economici, ma anche al prestigio, al potere.
A che punto è la ricerca sul cancro?
È una domanda da un milione di dollari, se non altro perché quello che noi chiamiamo cancro è, in realtà, una galassia di malattie molto diverse tra loro. Sicuramente, però, è possibile dire che la ricerca su come diminuirne l’incidenza è fortemente penalizzata. Inoltre, ogni giorno leggiamo di nuovi farmaci, di cure miracolose, di immensi passi in avanti. Le cose purtroppo non stanno così: nel 2017 il British Medical Journal ha pubblicato uno studio secondo cui molti farmaci oncologici approvati dall’Agenzia europea per i medicinali tra il 2009 e il 2013 non apportavano benefici in termini di allungamento o miglioramento della qualità della vita. E paradossalmente, a spingere per l’approvazione sono proprio le associazioni di pazienti che, con sempre maggiore frequenza, vengono arruolate dalle case farmaceutiche per fare pressione in cambio di donazioni, di cui queste associazioni hanno sempre bisogno, dal momento che non ricevono adeguate sovvenzioni pubbliche.
Come consiglia di informarsi a riguardo?
Oltre al nostro blog, consiglio di seguire quello dell’associazione Codice Viola che si occupa di tumore al pancreas, ed è, dal mio punto di vista, un’associazione modello perché mette al centro gli interessi dei pazienti e dei loro familiari, fornisce informazioni basate su evidenze scientifiche e partecipa alla produzione della conoscenza attraverso la collaborazione a studi come quello che recentemente ha svelato che in Italia 132 malati di cancro al pancreas muoiono ogni anno perché operati da chirurghi che non hanno esperienza sufficiente per cimentarsi in uno degli interventi più difficili di chirurgia addominale. Un altro blog da seguire che si occupa, invece, di cancro e lavoro e non solo è quello di Afrodite K. Inoltre, è da poco disponibile con sottotitoli in italiano il film Pink Ribbons Inc.(Nastri Rosa Spa), tratto dal libro omonimo della sociologa Samantha King, in cui è possibile ascoltare dalla voce delle dirette protagoniste come le attiviste statunitensi si siano opposte alla trasformazione del cancro al seno in un business. E poi la pagina Facebook di Oltre il nastro rosa che dà voce alle donne che vivono in Italia con cancro al seno metastatico.

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