Nelle prossime ore (oggi?) si consumerà il “delitto perfetto” del servizio pubblico radiotelevisivo. Quest’ultimo è dalla primavera-estate nella cella dell’esecuzione, in attesa di una telefonata del governatore che, naturalmente, non arriverà. Un’agonia durata 232 giorni. E il conto alla rovescia arriva proprio al confine tra l’autunno e l’inverno. Sull’azienda di viale Mazzini calano il buio e il freddo.
Il Senato, in terza lettura, vara un testo mediocre e pericoloso. Una controriforma chiamata riforma, com’è d’uso nella stagione recente, quando ai misfatti politici si sono aggiunti quelli semantici. Il significato ultimo (e unico, salva la solita delega all’esecutivo, questa volta per mettere mano al Testo unico sulle radiodiffusioni del 2005) del testo è chiaro: portare la Rai sotto l’egida e il controllo di palazzo Chigi, trasformando il direttore generale in amministratore delegato con poteri regali. La novità non sta solo qui. Alla vigilia della scadenza della concessione –maggio 2016- con lo stato, il servizio pubblico viene ributtato nel girone in bianco e nero che precedeva la riforma (vera) del 1975. Del resto, così come alla Leopolda renziana è stato esibito il volto censorio verso la stampa libera, figuriamoci se poteva resistere all’assalto il broadcaster pubblico, popolato persino da qualche non allineato. L’attacco ai talk ha anticipato il rodeo finale che, proviamo a scommetterci, seguirà inesorabile con un potente e prepotente cambiamento dei gruppi dirigenti dell’azienda. Non ci si illuda che sia solo innocuo maquillage l’esito dei cinque articoli del disegno di legge. E’ la cornice legittimante delle prevedibili scene di caccia.
Insomma, il “bignamino” della vecchia grida di Gasparri ha un valore in sé, la conquista della stanza dei bottoni; e per sé, l’apertura di un’altra fase: centralistica, sorvegliata, italianamente autoritaria. Con uno schiaffo solenne alla giurisprudenza costituzionale, ampiamente evocata da Roberto Zaccaria nel corso dell’audizione svolta alla Camera dei deputati a nome dell’associazione “Articolo21”, rigorosa nell’affermare i principi dell’indipendenza, dell’autonomia e del pluralismo. Siamo al cospetto del peggior conservatorismo, persino surreale.
E sì, perché nell’era delle piattaforme multi e cross mediali, nonché della discussione sull’accesso aperto e sulla neutralità della rete -in cui il pubblicobene comune potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo di garanzia per tutti, senza discriminazioni- il pasticciaccio perpetrato ha il sapore di un vecchio disco a 45 giri, brutto e pieno di fischi.
Certamente un’opposizione vi è stata, a partire dalle proposte fatte proprie dalle “sinistre”, frutto di un lungo lavoro culturale avviato da MoveOn. Movimento ancora protagonista, come è stato lo scorso 2 dicembre con una manifestazione a Roma, condivisa da numerosissime associazioni. Lì fu annunciata l’intenzione di mantenere vivo l’impegno, attraverso un osservatorio e una partecipata consultazione civile. Peraltro, la Bbc rinnova il suo rapporto di servizio pubblico attraverso la Royal Charter, che scaturisce proprio da una ricerca sul Dna moderno del public service. Francamente, però, serve alzare la voce, facendone una questione democratica, al di là degli aspetti specifici.
Viene spontaneo chiedersi come potrà digerire un simile misfatto il Presidente Mattarella, che nel 1990 si dimise da ministro, per l’insostenibile pesantezza della legge Mammì sull’emittenza: madre delle sciagure successive.
A proposito, ci sarà la fiducia?