Roberto Herlitzka: "Dante è sconosciuto perché anche quello che si conosce di lui è sempre poco" | Giornale dello Spettacolo
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Roberto Herlitzka: "Dante è sconosciuto perché anche quello che si conosce di lui è sempre poco"

Dal 20 al 23 maggio, Roberto Herlitzka leggerà Dante al teatro Basilica di Roma

Roberto Herlitzka: "Dante è sconosciuto perché anche quello che si conosce di lui è sempre poco"
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19 Maggio 2021 - 09.49


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di Alessia de Antoniis

 

I teatri riaprono e Roberto Herlitzka torna a teatro con “Roberto Herlitzka legge Dante”. Tra le antiche mura del Teatro Basilica di Roma, ove convien lasciare ogne sospetto; ogne viltà convien che qui sia morta, dal 20 al 23 maggio, il maestro Roberto Herlitzka leggerà alcuni Canti della Divina Commedia.

Più di sessant’anni vissuti recitando, partendo dall’Accademia Silvio D’Amico, passando attraverso la direzione di grandi registi come Luca Ronconi, Luigi Squarzina, Lina Wertmuller, Luigi Magni, Paolo Sorrentino. Tra i premi vinti, due Premi Ubu per il teatro, un Nastro d’Argento e un Davide di Donatello per il film Buongiorno, notte di Marco Bellocchio. Non importa se sulle tavole di un palcoscenico o davanti a una cinepresa: Roberto Herlitzka resta uno degli ultimi testimoni di una stagione d’oro dell’attorialità italiana che sembra non voler tornare.

 

Causa Covid, riesco a raggiungerlo telefonicamente mentre sta andando in teatro. Peccato: questi sono quegli incontri ai quali non rinunceresti.

 

 

Dante. Perché è un grande sconosciuto?

Dante è sconosciuto perché anche quello che si conosce di lui è sempre poco. Forse perché è entrato nell’immaginazione e si pensa solo al suo nome, al suo naso, al suo poema. Ci sono persone che lo conoscono a memoria, ma non possiamo pretendere che sia conosciuto a fondo da tutti. L’importante è che almeno tutti sappiano chi è. È già qualcosa. È comunque un punto di riferimento.

 

Dopo tanti anni sulle scene, cosa ama del suo lavoro e cosa non ama più?

Il mio lavoro lo amo sempre. Ci sono cose che non posso più fare per ragioni fisiche, ma, il mio lavoro, mi piace in tutti i suoi aspetti, che ho sempre accettato volentieri. Ci sono anche lati che uno può non amare, ma che si accettano per convenienza. Io ho sempre fatto cose che volevo fare, quindi non ho rimpianti. Potrei andare avanti a lungo nel mio mestiere a recitare in ruoli che non ho interpretato. Ma quello che ho fatto mi tiene abbastanza compagnia.

 

Ha mai pensato di smettere?

No. Semmai posso aver pensato che mi serviva una pausa. Ma di quelle ne ho avute, perché un attore di teatro, a meno che non sia richiestissimo, non è che venga cercato così spesso. Ha molto tempo per riposarsi, anche troppo.

 

 

Se dovesse salire per l’ultima volta sul palcoscenico, con quale testo saluterebbe il suo pubblico?

L’Amleto. Ma è una versione dell’Amleto speciale che ho scritto per me, perché nessuno me lo faceva fare. L’ho recitato in un’età che ormai non era più adatta ad Amleto e quindi l’ho chiamato Ex Amleto. Contiene solo le sue battute, mentre quelle degli altri personaggi le ho sottintese. Ha funzionato molto bene. Mi hanno chiamato anche a Parigi. È un testo che teatralmente amo.

 

 

Un compagno di viaggio con cui è felice di aver fatto un pezzo di strada insieme?

Mia moglie Chiara. Mi è sempre vicina: nella vita, ma anche in teatro. È un’appassionata di teatro e si innamorò di me perché mi vide recitare. Le piacevo per questo. Vede il teatro con occhi illuminati e profondi e anche su questo possiamo avere uno scambio continuo e totale. È lei il mio compagno di viaggio.

 

Una prova attoriale che l’ha messa duramente alla prova?

 Credo che più o meno tutti i personaggi che ho interpretato mi abbiano messo duramente alla prova, soprattutto se erano grandi personaggi. Ma non mi sono mai preoccupato di questo. Li ho sempre fatti come mi andava di farli. Se qualcuno mi dava suggerimenti che mi piacevano, li seguivo, ma non mi sono posto nessun genere di responsabilità che andasse oltre il piacere di recitare quel personaggio. Uno è Re Lear, che non è certo facile: l’ho affrontato ricordandomi o rivivendo le emozioni che ho ricevuto dal testo. Perché poi, in realtà, è il testo che, se è poeticamente valido, ti conduce, ti porta o ti manda da qualche parte. E a quello, secondo me, bisogna affidarsi.

 

È stato Moro nel film di Bellocchio. Le ha chiesto di contribuire alla creazione del personaggio? Lo avrebbe fatto diversamente?

Bellocchio non mi ha solo aiutato, me lo ha ispirato. Non mi ha imposto alcun modo di interpretarlo. Non abbiamo voluto fare un ritratto esatto, perché Moro aveva sì dei lati personali, ma non era particolarmente caratterizzato come persona. Per quel ruolo mi sono formato sentendo alcune sue interviste radiofoniche, ascoltando il suo modo di parlare, leggendo le lettere scritte durante la prigionia. Ho trovato interessante il libro di Sergio Flamigni (La tela del ragno. Il delitto Moro – nda). Lavorare con Bellocchio mi ha, come sempre, entusiasmato e spinto a fare e a dare: è un artista di grande spiritualità.

 

Nonostante il tempo trascorso, lei ricorda sempre con gratitudine il suo maestro, Orazio Costa. Si sente ancora suo allievo?

È stato il mio maestro assoluto. Mi ha fatto capire e sentire cos’è il teatro e cos’è la recitazione. Non ho mai abbandonato quegli insegnamenti anche se ho dovuto, a volte, allontanarmene, perché rischiavo gravemente di imitarlo, cosa che agli allievi può succedere. Questo non era accettabile, prima di tutto da me. Non è stato solo un maestro, ma molto di più.

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