Con 'Il Padre' di August Strindberg, Gabriele Lavia racconta l’incertezza dell’essere | Giornale dello Spettacolo
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Con 'Il Padre' di August Strindberg, Gabriele Lavia racconta l’incertezza dell’essere

L'intervista a Gabriele Lavia riguardo Il Padre, in tournée a a Bologna, Milano, Torino, Genova, Udine.

Con 'Il Padre' di August Strindberg, Gabriele Lavia racconta l’incertezza dell’essere
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7 Febbraio 2018 - 19.49


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di Eliana Rizzi

‘Il Padre’ di August Strindberg è un testo con cui Gabriele Lavia si confronta per la terza volta e in quest’occasione, al suo fianco, c’è Federica Di Martino. Sul palco, tra tendaggi rosso sangue e mobili che sembrano precipitare nel vuoto, una logorante partita a scacchi tutta mentale fra marito e moglie, uomo e donna, padre e madre. Con un primo atto di quasi due ore e il secondo di una manciata di minuti, va in scena il dramma di uno dei più grandi autori svedesi.

Non è la prima volta che mette in scena quest’opera di Strindberg. Perché tornare su Il padre?

Sono incappato tre volte in questo testo e non avrei mai creduto di metterlo di nuovo in scena… il destino mi ha teso una trappola. Diciamo che la motivazione “artistico-esistenziale-filosofica” è che tutti gli altri testi che avevo proposto costavano un po’ troppo. Scherzi a parte, nella dimensione che racconta Strindberg c’è un capovolgimento storico del potere, delle dinamiche fra uomo e donna. Questo messaggio profetico alle generazioni future lo possiamo ancora vedere in cammino oggi. Inoltre, è un’opera che ho già frequentato, si tratta della mia seconda regia e ora dell’ultima, dove ho potuto raccontare non soltanto il testo ma anche me stesso. Il me stesso regista ovviamente, la vicenda del Capitano Adolf non ha nulla a che vedere con la mia vita.

Come è stato il confronto con il personaggio?

Il mio confrontarmi con Il padre non è un confronto personale, ovviamente, mi rapporto anche con l’Otello ma non ho certo la pelle scura. Il livello non è fisico ma metafisico, l’incertezza di essere padre nella storia di Strindberg sta per l’incertezza di essere. Punto. L’incertezza di essere non è di un padre o di un uomo, è dell’essere umano. Lo spettatore, o la spettatrice, si può rispecchiare in un personaggio che non importa sia maschile o femminile perché la dimensione è un’altra: la messa in scena dell’attore è una dimensione affettiva. Noi non recitiamo il personaggio, ma i sentimenti del personaggio. Noi non possiamo recitare altro che non sia “me stesso”, poiché ci sono io in scena. Ciò che faccio è recitare dei sentimenti che mi vengono “suggeriti da un testo” come diceva Shakespeare.

Lo spettatore che vede il testo per la prima volta invece, si accorge di quanto il dibattito interno sui ruoli (uomo-donna, padre-madre) sia attuale.

Quando ho scelto il testo non mi aspettavo che sarebbe stato così attuale, è stata una scoperta anche per me. Quando lo avevo portato in scena tanti anni fa non era così, mentre oggi queste problematiche si sono diffuse e raccolgono tutti gli strati della società, anche il pubblico del teatro.

Nelle diverse rappresentazioni di questo testo, così distanti negli anni, ha dovuto usare dei diversi accorgimenti? Fare delle modifiche alla messa in scena?

L’adattamento è stato principalmente drammaturgico, a livello di traduzione e linguaggio (i quali possono avere un’eco diverso dentro una problematica contemporanea), ma non più di questo.

Ho però cambiato il finale: è vero che l’uomo muore per l’incertezza, ma questa incertezza fa parte dell’essere uomo, maschio, a livello ontologico. È ciò che lo ha portato alle scoperte, alle grandi invenzioni. Ho voluto finire con il Capitano che guarda il cannocchiale e dice la parola “stelle”, come una sorta di tensione, di speranza. Tra l’altro, la parola “stelle”, è l’ultima parola che ha pronunciato Strindberg prima di morire. Questo autore, che io amo in modo particolare, è morto nel suo letto – non con la camicia di forza, come il suo personaggio – ma pronunciando, chissà perché, la parola “stelle”.

Mentre riguardo la scelta della scenografia? I tendaggi rossi, i mobili sbeccati…

La scenografia fa parte del mio mondo: ho usato spesso i velluti: neri, verdi, maggiormente quelli rossi. E tante volte nella mia vita da regista ho messo i mobili storti, sono quasi una mia firma perché quella casa che affonda, i mobili sconnessi e ammonticchiati, le pedane rotte… sono una rivisitazione di me stesso, come se volessi fare il punto, attraverso il testo, del mio modo di fare gli spettacoli.

In fondo ogni spettacolo non è altro che il tentativo di afferrare quel qualcosa di irrappresentabile, inafferrabile, indicibile che è il teatro. D’altronde il teatro cos’è? Non lo sappiamo, ma a volte qualche grande attore con un’intonazione, un movimento, un gesto o anche un momento di inutilità riesce a catturarlo.

Come si concilia l’ineffabile, l’esperienza estetica del teatro con la sostenibilità economica? Qual è lo stato di salute del teatro?

Io ho la fortuna di avere un seguito e non mi posso lamentare. Una volta, forse, “era meglio” gli attori lavoravano molto di più, mentre ora lavorano molto di più gli uffici, ci sono molte più carte, molti più numeri, molti meno attori, molti meno spettacoli. Più aumenta l’amministrazione, più diminuisce il lavoro sul palcoscenico. Si moltiplicano le scrivanie, ma diminuisce il numero degli attori.

Tutta questa bella festa si dovrebbe fare perché c’è qualcuno sul palco che si agita e strilla e qualcuno in platea che ascolta. Non perdiamo di vista questo: le schede sono necessarie, ma il teatro si fa sul palcoscenico. E se sul palcoscenico non accade nulla, non ha senso che esistano gli uffici.

Con Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Ghennadi Gidari, Luca Pedron.

Scene di Alessandro Camera, costumi di Andrea Viotti, musiche di Giordano Corapi, luci di Michelangelo Vitullo. La produzione è a cura della Fondazione Teatro della Toscana.

 

Il Padre sarà al teatro Quirino di Roma fino al 4 febbraio, poi la tournée proseguirà a Bologna, Milano, Torino, Genova, Udine.

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