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Teatro in ospedale: sconfigge il burnout di medici, infermieri e volontari

Co-Healt è un progetto che utilizza il teatro per la prevenzione di stress ed esaurimenti. Coinvolte 90 persone a Torino: il loro stato psicofisico è migliorato del 30%.

Teatro in ospedale: sconfigge il burnout di medici, infermieri e volontari
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13 Novembre 2015 - 15.33


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Il caso più celebre, probabilmente, è stato quello di Andreas Lubitz, il pilota della Germanwings che lo scorso marzo si è suicidato con il suo Airbus, portando con sé i 144 passeggeri che avrebbe dovuto condurre a Dusseldorf. Un caso anomalo, in un certo senso: perché la sindrome da burnout – logorante forma di esaurimento nervoso di cui il pilota soffriva – colpisce in genere coloro che, per lavoro, si trovano quotidianamente a contatto con situazioni di disagio e profonda sofferenza: e dunque medici, personale infermieristico, assistenti sociali; ma anche volontari, sacerdoti, missionari e forze dell’ordine. Soggetti che a lungo andare, in mancanza di una valvola di sfogo per lo stress accumulato, finiscono per implodere; ritrovandosi schiacciati da depressione, apatia e da un senso di cinismo nei confronti di pazienti e assistiti, con un inevitabile deterioramento della vita personale e lavorativa.

Una situazione che, in tempi di precariato e crisi diffusa, appare particolarmente rischiosa: emblematico, in questo senso, è il caso degli assistenti sociali di Torino, tra i quali nei mesi scorsi si sarebbe verificata una vera e propria epidemia di esaurimenti legati alle pesanti condizioni di lavoro. Nel frattempo, secondo i dati diffusi dall’Unione Europea, più del 20 per cento dei lavoratori comunitari ritiene che la propria salute sia già a rischio per via dello stress, che sarebbe causa di almeno il 50 per cento delle giornate lavorative perse. E nonostante ciò, la giurisprudenza italiana si ostina a non riconoscere il burnout come malattia professionale, mentre è la stessa Organizzazione mondiale della sanità a mettere in guardia sull’eventualità che stress e depressione possano diventare, entro il 2020, la seconda causa di invalidità in assoluto.

In mancanza di tutele, non resta che la prevenzione; e proprio da Torino arriva ora uno studio che dimostrerebbe come il burnout e le malattie correlate a stress e lavoro possano essere prevenute più facilmente di quanto si creda. La chiave di volta sarebbe il teatro, per via delle possibilità offerte sotto il profilo della gestione e dell’espressione di emozioni e sentimenti: a sostenerlo è il Social and Community Theatre Centre dell’Università di Torino, che a partire dal 2013 ha coinvolto 90 soggetti (tra i quali 60 studenti di medicina e 30 professionisti di strutture sanitarie) in un percorso formativo declinato lungo una serie di laboratori teatrali. “L’obiettivo – spiega la dottoressa Alda Cosola, responsabile Promozione salute della Asl Torino 3 – era aumentare il loro livello di consapevolezza sul proprio stato psicofisico, per poi sviluppare delle strategie di resilienza”. Prima che il progetto partisse e subito dopo la conclusione, al gruppo è stato somministrato il Maslach Burnout Inventory, un questionario che, attraverso una serie di domande mirate, è in grado di misurare i sintomi di stress e il rischio di burnout nei soggetti intervistati. E a tal proposito, secondo Cosola, è interessante notare come “nel gruppo degli operatori sanitari, praticamente tutti riportassero uno o più sintomi fisici da stress: insonnia, costante mal di testa, dolori alla schiena, difficoltà di concentrazione”.

Ed è proprio al corpo (“che in soldoni – precisa la dottoressa – è l’oggetto che più di tutti è soggetto a questo fenomeno”) che erano rivolti gran parte degli esercizi condotti durante i laboratori: inizialmente, il metodo utilizzato è stato il Feldenkrais, un sistema di “apprendimento mediante movimento” orientato alla consapevolezza corporea. In seguito, attraverso momenti di improvvisazione teatrale, ai partecipanti è stato chiesto “di mettere in gioco e in movimento le emozioni e gli stati d’animo” ricorda Paola, assistente domiciliare che ha partecipato al corso, e che nel 2011 riferisce di aver avuto un episodio di forte esaurimento, “che col senno di poi – spiega – era probabilmente un caso di burnout”.

A leggere i risultati della ricerca, i benefici portati da questo approccio sarebbero concreti e misurabili: “ripetendo il questionario alla fine del percorso – continua Cosola – abbiamo evidenziato una diminuzione del 30 per cento negli effetti della sindrome”. In particolare, la variazione più importante “ha riguardato il tasso di esaurimento emotivo e di Depersonalizzazione – continua Cosola – entrambi in netta diminuzione; mentre un incremento pari a circa il 10 per cento si è registrato nella sottoscala della realizzazione personale”. Proprio questi, nella scala di Maslach, sono i tre indicatori principali utilizzati per misurare l’eventuale burnout. Il miglioramento, secondo la dottoressa, sarebbe stato progressivo e costante: “lo stato psicofisico dei pazienti – spiega – è stato monitorato lungo l’intero percorso, e i benefici hanno continuato a prodursi per l’intera durata dell’esperienza”.

Oltre alla Asl e all’Università, al progetto Co-Healt – appena presentato nel capoluogo sabaudo in un convegno sullo stress da lavoro – hanno collaborato gli ospedali “Mauriziano” e “San Giovanni in Bosco” di Torino; la fondazione “Medicina a misura di donna” e la Società Italiana di Psiconeuroimmunoendocrinologia. Un finanziamento di 80mila euro è arrivato inoltre dalla fondazione Crt. Secondo Cosola, il prossimo passo sarà creare, a partire da questa esperienza, “un modello di intervento che permetta di riconoscere e fronteggiare lo stress correlato al lavoro, soprattutto in quegli ambienti, come ospedali e strutture sanitarie, in cui questo può rivelarsi particolarmente rischioso”. (ams)

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