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Sabbia: i rifugiati del centro di accoglienza diventano attori

Spettacolo ideato da Riccardo Vannuccini, in scena oggi e il 13 giugno 2015 al Teatro Argentina di Roma: protagonisti venti ragazzi del Cara di Castelnuovo di Porto

Sabbia: i rifugiati del centro di accoglienza diventano attori
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12 Giugno 2015 - 10.00


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di Valeria Calò

Tra le scenografie di “Sabbia” non ci saranno valigie, e nessuno racconterà di quanto ha viaggiato o quanto ha sofferto. Anche se a dare vita allo spettacolo saranno venti rifugiati provenienti dall’Africa, ospiti del Centro di prima accoglienza per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto. In scena al teatro Argentina di Roma il 12 e 13 giugno – in occasione della Giornata mondiale del rifugiato – porteranno l’atto conclusivo di un laboratorio teatrale durato dieci mesi. Ideato da Riccardo Vannuccini lo spettacolo è stato realizzato in collaborazione con l’associazione Cane pezzato, il gruppo di Artestudio e la cooperativa Auxilium, “Per rompere un equilibrio, innescare il caos, mettere a soqquadro, perchè l’azione teatrale all’interno di istituzioni chiuse non deve contribuire a mantenere l’ordine o addirittura ad instaurarlo. Deve fare accadere una situazione di crisi e non riproporre la divisione giudiziaria fra i sapienti e non”.

Non ci saranno valigie perché “negli ultimi quattro o cinque spettacoli che ho visto sul tema – spiega Riccardo Vannuccini – i rifugiati avevano sempre la valigia in mano, ad interpretare la storia di chi ha viaggiato tanto, di chi ha sofferto tanto, con gli africani che ballano perché gli africani ballano. Insomma una serie di stereotipi capaci di rendere i rifugiati immediatamente riconoscibili, come se quella del rifugiato fosse una razza, piuttosto che una condizione. All’inizio dell’esperienza fatta con i rifugiati abbiamo cambiato le collaborazioni, perché ci veniva detto “è uno spettacolo bellissimo ma non si capisce che sono rifugiati”. Esatto. Far vedere quello che posso vedere è quello che fanno i giornali e le televisioni, oppure la fiction, che ormai condiziona moltissimo il teatro. Il teatro invece deve poter parlare delle cose invisibili, delle cose che non si riescono a vedere”.

Un progetto che è stato accolto con entusiasmo da Auxilium, la cooperativa che gestisce il centro. Come spiega la responsabile Floriana Lobianco, “riteniamo che luoghi come il Cara dovrebbero essere più aperti alle diverse realtà territoriali, alle iniziative di associazioni che operano nel settore, al fine di promuovere percorsi di integrazione e di attivare un lavoro di rete fondamentale nelle realtà sociali; la proposta di Artestudio, di cui abbiamo potuto constatare un’ampia esperienza nel lavoro con persone straniere e con rifugiati in particolare, si poneva perfettamente in linea con questo processo di apertura. Il teatro è una forma di espressione e comunicazione che utilizza diverse forme di linguaggio e si pone per queste sue caratteristiche trasversale all’appartenenza culturale e può aiutare la persona a trovare una modalità per poter esprimere e ri-esprimere attraverso una forma simbolica il proprio vissuto emotivo. Abbiamo pensato, quindi, che potesse essere per loro un’esperienza positiva ed importante”.

Dopo un’esperienza ventennale all’interno di realtà marginali che spaziano dal carcere ai villaggi profughi delle zone di guerra, fino alle residenze di ragazzi affetti da disabilità psicomotorie, Riccardo Vannuccini porta al Cara di Castelnuovo di Porto l’esperimento biennale già compiuto al centro di Gradisca di Isonzo. Un lungo lavoro all’interno di istituzioni chiuse, dove “si innesca un arretramento dell’ essere umano, cui segue un annullamento identitario, una mortificazione delle capacità espressive ovvero di relazione col mondo. Allora è attraverso il gesto artistico che è possibile recuperare la possibilità di comprendere gli accadimenti dell’ esistenza, di metterli in figura attraverso la creazione del possibile”. Un lavoro di dieci mesi con cui, conferma la responsabile di Auxilium, si sono raggiunti risultati importanti. “I ragazzi hanno riportato di essere stati molto contenti di questa esperienza, dopo le difficili e drammatiche esperienze che vivono prima di giungere al Cara si sono sentiti finalmente protagonisti della loro vita. Oggi sono tra quelli che si relazionano e si rivolgono maggiormente con i nostri uffici e con il personale, questa esperienza li ha aiutati a capire che ci sono persone che sono attente a loro e alle loro storie anche fuori da questo contesto”.

Eppure quando il progetto di Sabbia è stato presentato agli ospiti del Centro, gli operatori di Artestudio inizialmente hanno incontrato una certa diffidenza, perché, continua Vannuccini, “purtroppo gli stereotipi come esistono per noi, esistono anche per loro. Dunque fargli capire che occidentale non significa solo ricco non è stato semplice. Come non è stato semplice spiegare che seppure l’ospitalità è sacra, in tutte le lingue e le religioni del mondo, l’accoglienza ha delle regole molto precise che impone anche a noi uno sforzo importante”.

Un approccio al teatro e al rapporto che questo istaura con l’istituzione chiusa che, non solo non intende conferire a questa realtà e ai suoi protagonisti degli elementi capaci di renderlo riconoscibile all’interno di una immaginario collettivo già del tutto consolidato, ma che rende il teatro uno strumento di salvazione artistica e affermazione della propria persona. Entrando nel merito del percorso compiuto con i ragazzi del Centro, Vannuccini precisa che “il laboratorio di Sabbia è fatto di azioni e non di chiacchiere. Non esiste un copione. Si parla molto poco e tutto si concentra sulle azioni e nell’uso/espressività del corpo. I partecipanti, in questo caso giovani africani più o meno ventenni, lavorano su gesti semplici ma che in qualche modo, in maniera indiretta, sappiano rappresentarli. È quando un gesto è compiuto, quando nel gesto si è fondata attenzione, il gesto diventa rappresentativo ovvero ci mostra altra cosa da quello che compie. Possono semplicemente spostare una sedia ma è come se stessero spostando la loro casa. Dunque quel gesto diventa azione scenica”.

Una composizione scenica di confine che deve molto a Pina Bausch, Jackson Pollock, Thomas Eliot e Ibn Battuta. Il viaggiatore per eccellenza del mondo islamico medievale, nella sua Rihla ci regala sguardi unici e dettagliatissimi sul suo grande peregrinare, che partendo dall’Africa passa per Siria, Russia, Afghanistan e approda in India e Cina e che percorre 120 mila chilometri con tutti i mezzi di trasporto allora in uso, dal cavallo al dromedario, dal carro ad ogni tipo di imbarcazione. “Per Sabbia ci siamo rifatti anche a Ibn Battuta – continua Vannuccini – ma non tanto per le parole quanto per il fatto che questo signore ha compiuto fisicamente i suoi viaggi, incontrando migliaia di persone e prendendo nota dei loro usi e costumi. Mentre oggi viaggiamo molto senza muoverci da casa. E questo fa la differenza, perché la conoscenza del mondo è scritta nel corpo, perché è proprio il corpo che comprende, che capisce. Quindi abbiamo seguito la traccia di Battuta per indagare le sue reazioni quando per la prima volta ha incontrato gli africani e quel tipo di abitudini. Indagare su come il suo corpo ha capito e come ha reagito e come si è scandalizzato e come si è appassionato quando la notte gli hanno donato delle ragazze nude, in omaggio al viaggiatore”.

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