“È uno spettacolo che faccio ormai dal 2009, è un mio classico, che riassume al meglio la mia poetica di anti-narrazione, di post-spettacolo”. Andrea Cosentino presenta così “Primi passi sulla Luna”, il lavoro che porterà in scena venerdì 15 maggio 2015 al Teatro dell’Orologio di Roma all’interno del Festival Inventaria 2015, nella sezione fuori concorso. “Il mio è uno spettacolo disintegrato, più raccontato che eseguito – continua l’attore -. È il racconto di uno spettacolo smembrato che si svolge su due piani, da un lato c’è la parte comica e dall’altro lato la parte più intima e autobiografica”.
Come racconteresti “Primi passi sulla luna” a chi non lo ha mai visto?Parto dal sottotitolo che è un po’ bizzarro “Divagazioni provvisorie per uno spettacolo postumo”: io fingo che Cosentino, il sottoscritto, è morto di lui rimangono solo uno scatolame pieno di oggetti e dei pezzi di testi, attraverso i quali ricostruisco lo spettacolo su cui stava lavorando prima che la morte lo cogliesse. Chiaramente è un gioco ironico. Nella parte più comica e assurda racconto la notte dell’allunaggio del 20-21 luglio 1969 con tutte le dietrologie del caso, ovvero le idee del complotto dietro l’evento mediatico. Gira voce infatti che gli americani non siano mai andati sulla Luna ma che il filmato sia stato realizzato da Stanley Kubrick che proprio l’anno prima aveva diretto “2001 odissea nello spazio”. In parallelo, c’è il cuore dello spettacolo, dove mi soffermo a parlare della storia di mia figlia e la sua malattia vera o presunta che gli era stata diagnosticata a tre anni. Forse spiegato sembra molto difficile da capire, ma lo spettacolo ha un impatto immediato e molto semplice: è il mio modo per abbassare le pretese a quella verità che ha la presunzione di svelarti come stanno davvero le cose. È un inno all’artificialità del teatro, all’idea che la verità artistica non può che passare attraverso un artificio. In “Primi passi sulla luna” faccio deflagrare la storia vera di mia figlia attraverso una serie di artifici. È un po’ il gioco che faccio in tutti i miei spettacoli: lanciare il sasso senza nascondere la mano. Ti racconto delle storie, ti faccio ridere, ti faccio commuovere ma al tempo stesso ti svelo, ti dichiaro sempre gli artifici mediante i quali sto ottenendo questi effetti. È un po’ – e poi finisco con questa mia logorrea… – lo stile del mio teatro, un teatro comico sperimentale, non è né il teatro di puro intrattenimento né il teatro sperimentale compiaciuto di se stesso: lo definirei comico, brechtiano sperimental-post-moderno. È un teatro che adesso si definisce post-drammatico,dove è tutto svelato, tutto è in vista e tutto deve funzionare.
A chi ti sei ispirato per questo lavoro?Nel 2009 si celebravano i 40 anni dell’allunaggio. Un assessore della cultura di Roma mi aveva detto che erano disponibili dei finanziamenti per chi ne avesse parlato in uno spettacolo. La cosa mi aveva fatto ridere e non avrei mai pensato di farci qualcosa su questo evento. Poi, come ho detto prima, a mia figlia è stata diagnosticata questa pseudo malattia che si manifesta nelle fotografie, tramite dei riflessi strani in un occhio che sembravano assomigliare alla Luna. Ho messo insieme queste due cose, come faccio sempre nei miei spettacoli. Non affronto mai un solo argomento per volta, cerco di mescolarne sempre due o tre, apparentemente distanti, e poi cerco di capire che cos’è questa miscela che tipo di connessioni può dare. Questo spettacolo è il racconto di tre giorni di attesa: di questi “Primi passi sulla luna” che sono proprio i passi in questo continente, inesplorato e doloroso, della morte. Dall’altro lato si celebravano
In molti hanno definito il tuo un non-spettacolo, ti piace questa espressione?Mi piace, nel senso che lo dichiaro io steso all’inizio della performance. In realtà quello che mi piace è che questo spettacolo funziona, e lo dico forse con poca modestia, ma che funziona meglio di molti altri che si vedono in giro: è divertente, commovente. Inoltre a me piace molto l’incompiuto, il frammentario, il non confezionato. I miei spettacoli hanno sempre qualcosa di sciatto e irrisolto. La mia idea è di attivare in qualche modo la collaborazione con lo spettatore, farlo essere in scena insieme a me a costruirsi lo spettacolo, dargli un po’ dell’enorme divertimento che noi teatranti abbiamo nel fare questo mestiere e che a volte si perde quando si confeziona uno spettacolo.
Lo spettacolo è del 2009, come è cambiato in questi anni?È cambiamento in tante cose e niente. Questo spettacolo io non l’ho mai scritto. Avevo questi argomenti e li mescolavo di fronte al pubblico. Avevo una scaletta più o meno provvisoria e improvvisavo. Adesso dopo quattro anni, è lo spettacolo che porto in giro più spesso sia per motivi logistici perché non ho bisogno di nulla per realizzarlo sia perché oggettivamente credo che sia uno dei miei spettacoli più belli: è contemporaneamente popolare, poetico, divertente, l’ho fatto talmente tante volte, che anche se non ho mai scritto il testo, il guitto ha preso il sopravvento mano a mano che lo recitavo e adesso, se si guardano le repliche, sembra di guardare sempre la stessa opera, nonostante sia diversa di volta in volta. È diventato mio malgrado un bello spettacolo, che funziona, che ha i suoi ritmi, i suoi tempi. È invecchiato bene: ma è una performance che propongo volentieri, perché ancora mi emoziono quando lo metto in scena.
Ci sono i personaggi, le macchiette, che porti sulla scena?
È la mia commedia dell’arte contemporanea che mi segue in tanti spettacoli. In tutti i miei lavori ci sono questi tipi di personaggi che si identificano solo per un cappellino, delle antennine di plastica, dei marcatori: loro utilizzano per parlare delle sottospecie di dialetti, perché sono re-inventati. La lingua italiana quella della dizione degli attori per me è qualcosa di troppo asettico, non mi piace, perciò cerco sempre di sporcare il mio linguaggio. Sono delle macchiette volutamente bidimensionali a cui ho messo in bocca i racconti più assurdi e fantasiosi: sono delle mie maschere, dei miei alter ego comici che si possono permettere attraverso questo linguaggio strampalato di dire tutto quello che vogliono in maniera credibile.
Il motivo, per cui tutto sommato riesco a essere ottimista, non è tanto per l’arte teatrale specifica per la tradizione ma perché è un evento dal vivo. La gente continuerà ad andare a teatro per questa sua dimensione di spettacolo dal vivo. Magari sempre più delle arti di nicchia, ma è una forma espressiva dove hai l’esperienza unica di vedere delle persone in carne e ossa davanti a te che fanno delle cose e dove l’imprevisto è sempre in agguato a tenere vivo lo spettacolo.
Qual è lo stato di salute del teatro italiano?Andiamo sull’impegnativo e sul compromettente (ride, ndr.) Io ho un mio circuito appartato, autonomo. Al momento imperversano discussioni sulla nuova riforma del settore teatro: io non mi sono neanche informato perché ormai da 20 anni faccio un teatro piccolo materialmente e i miei circuiti sono talmente “indipendenti” e tangenziali a quelli che non ho mai avuto bisogno di finanziamenti o di grandi spazi dove provare. Se domani dovessero scomparire i finanziamenti – e attenzione io sono perché lo Stato dia finanziamenti alla cultura pur non essendo contento dei criteri di distribuzione -, io probabilmente sopravviverei e chi fa un teatro più grande no. Io ho sempre costruito il mio teatro pensando di dover recitare negli scantinati e non al Teatro Argentina, anche se poi ci sono salito anche sul quel palco. Lo stato del teatro italiano non è del tutto incoraggiante, non voglio dire che ce lo meritiamo ma in qualche modo sì.
Quali sono i tuoi progetti futuri?Sono molto impegnato. Sto lavorando su due spettacoli. Uno lo sto mettendo su insieme al coreografo Roberto Castello. Siamo io e lui: per una volta collaboro con un altro artista. Siamo noi due in scena, io sono un attore comico logorroico e lui un danzatore: è uno spettacolo sull’economia. Al momento stiamo lavorando sulla drammaturgia. Sto facendo anche un altro lavoro con il regista Luca Ricci, una riduzione del romanzo di Rosa Matteucci su Lourdes, storia di un pellegrinaggio tragi-comico. Mi sto prendendo un anno sabbatico dai miei assoli. Inoltre collaborerò con Valentina Capone che ha visto un mio testo e lo stiamo riadattando per lei.