di Agostino Forgione
Il pacifismo fa rima con estremismo solo sulla carta o, nell’immaginario odierno, i due concetti condividono anche una vicinanza tematica? È questa la domanda di fondo che emerge soppesando come, al giorno d’oggi, vengono considerate le posizioni che ripudiano la violenza in ogni sua forma, che si tratti di conflitti o di manganellate.
Tempi difficili per la nonviolenza, che sovente si alterna tra l’essere riconosciuta come qualcosa di ingenuo, di un infantilismo distaccato dal “mondo reale”, o una posizione polarizzata tanto quanto il suo opposto. Pacifisti disincantati coi paraocchi, dunque, o crociati di un pensiero ideologizzato e portatore di instabilità e insicurezza. È questa la riflessione a cui sono riapprodato nuovamente nei giorni scorsi, leggendo i commenti sui social circa il recente video che ha visto un carabiniere modenese prendere a pugni un ragazzo dopo averlo fermato. Tralasciando ogni commento sul fatto in sé, ciò che mi ha stupito sono stati in particolar modo i commenti a riguardo, soprattutto verso coloro che hanno denunciato la violenza degli agenti.
I pochissimi commenti sfuggiti alle dinamiche da ring dei social, che giustificavano o addirittura elogiavano le percosse date dagli agenti, sono stati infatti quelli maggiormente bersagliati e aspramente criticati. Una sorte infausta per gli sparuti che arditamente si sono domandati se non esistesse un modo alternativo per gestire la situazione, casomai evitando pugni nei fianchi. “Hanno fatto bene, finalmente dei carabinieri come si deve” e “voi strilloni di sinistra siete sempre dalla parte dei delinquenti”, questi che qui riporto sono probabilmente i commenti più pacati a riguardo.
Una razza pericolosa, a quanto pare, quella dei pacifisti, almeno è ciò che si direbbe visti commenti di questo tipo. Dei sovversivi quasi, agitatori sociali e portatori di una deleteria instabilità. Il rassicurante pugno di ferro l’unico garante di un giusto ordine. Inutile elencare tutti i casi più o meno analoghi. Che si ratti di manganellate fisiche, di carnali bastonate negli zigomi o di manganellate immateriali, di quelle che colpiscono senza lasciare lividi promuovendo forme di violenza parallele, poco importa. Chi prepone forme risolutive che in senso lato potremmo definire come “pacifiste” si muove in bilico tra l’essere preso come un affascinato sognatore o un bombarolo.
Che i social tendano a somigliare a un ring che fa della boxe esercizio principe di notorietà già lo si sapeva. La discussione in merito è articolata, c’è chi dice siano solo uno specchio della società e chi, spesso giustamente, afferma che facciano da cassa di risonanza a ogni estremismo, violenza, hate speech e affini. Ce ne eravamo accorti da un po’ sebbene, negli ultimi tempi, l’andazzo sembra peggiorare un po’ dappertutto. Ogni mondo è paese, ma non è neppure questo il punto. Sarà forse un’impressione, ma pare che tali dinamiche si stiano estendendo anche oltre i confini della rete diffondendosi in tutta la società. Pugno duro e pacifisti estremisti un po’ dappertutto e per tutto, insomma.
Chissà cosa sarà dei sempre più sparuti e braccati morigerati, di quelli che chiedono di posare le armi, abbattere muri, aiutare i naufraghi del mare o della vita. Ma anche provare a considerare altri punti di vista, valutare il dubbio, l’incertezza e la relatività di ciò che va oltre la propria prospettiva. Proprio in questi giorni, 94 anni fa, decine di migliaia di indiani si dirigevano verso le saline del Butan. Ad animare la Marcia del sale, come è passata alla storia, la richiesta di minori pressioni da parte dell’Impero britannico. La nonviolenza che sfidava e si opponeva alla violenza. 94 anni dopo, probabilmente come da sempre, abbiamo ancora bisogno di altri marciatori.