Salviamo la Camerino medioevale e rinascimentale da demolizioni improprie che rischiano di cancellare per sempre pezzi di storia: nel centro storico tra i colli e i monti del maceratese, colpito pesantemente dal terremoto del 26 e 30 ottobre 2016, bisogna studiare prima di abbattere palazzi che possono nascondere testimonianze preziose dal ‘300 al ‘400. Si può sintetizzare così l’appello lanciato a luglio al Commissario per la ricostruzione del sisma del 2016 Guido Castelli da un gruppo di storici dell’arte, archeologi, storici e con monsignor Sandro Corradini come primo firmatario.
Ne parla a globalist.it uno dei promotori della proposta, don Stefano Carusi: nato a Camerino nel 1976, archeologo, ha partecipato a scavi come quello nel sito etrusco del Fanum Voltumnae a Orvieto, ha studiato archeologia dei culti nel Mediterraneo antico, la storia della città e del Camerinese, fa parte della comunità sacerdotale di San Gregorio Magno. La ricostruzione a che punto è? “Si vede un’accelerazione dei progetti, tuttavia il centro storico non è ancora partito e soprattutto il problema è quello dei criteri d’intervento sull’antico”.
Don Carusi, qual è oggi la condizione del centro storico di Camerino, a otto anni dal sisma dell’ottobre 2016?
Da qualche tempo si vede un’accelerazione dei progetti. Tuttavia c’è da chiedersi se non abbia ancora un ruolo negativo una situazione legislativa pregressa, che riguarda anche come confrontarsi con i beni artistici: si pensi solo ai centri storici e alle demolizioni. L’ex Commissario speciale alla ricostruzione del sisma del 2016 Piero Farabollini (in carica dal 5 ottobre 2018 al 16 febbraio 2020, ndr), si è lamentato – il 24 maggio scorso – di un impianto legislativo “fatto per l’Emilia che aveva avuto un terremoto diverso dal nostro, in un territorio diverso dal nostro”. Di fatto non possiamo dire che il centro storico sia ancora partito e soprattutto il problema è quello dei criteri d’intervento sull’antico o sull’antico catalogato sbrigativamente come “vecchio”. Al contempo si restaura il cemento armato lesionato e si ricostruiscono edifici anni ’70 fuori contesto e che deturpano le mura cittadine e il centro storico. Si ha difficoltà ad individuare quali siano i criteri.
Insieme a storici dell’arte conoscitori del territorio come Andrea De Marchi e Matteo Mazzalupi avete lanciato una proposta per gli edifici storici. Può sintetizzarla?
In un gruppo di persone che hanno dedicato tanto del loro tempo agli studi sulla città, mettiamo le nostre competenze al servizio di una situazione che stava diventando piuttosto tragica anche per alcune volontà di demolizione. Bisogna conoscere la storia della città: Camerino ha subito terremoti e distruzioni, ma ha subito i maggiori danni dalle ricostruzioni con la volontà di rinnovare secondo le mode del tempo e con poca accortezza. Nel passato, che poteva essere il primo ‘800, si è ricoperto con intonaco o si sono scalpellati dei capitelli per avere una parete uniforme e adattarla al gusto dell’epoca. Quella smania di novità e di occultare il passato si ripeté dopo il terremoto del 1872, restituendo edifici un po’ anonimi e seppellendo sotto uno strato di intonaco capitelli, colonnati, portici, archi, fondaci dei commercianti trecenteschi. Abbiamo detto: attenzione, dove veramente necessario si può demolire, ma almeno una ricognizione preventiva è necessaria. Anche perché, aggiungeva Monsignor Corradini, “cosa verrà a vedere un turista a Camerino”?
E qual è il problema oggi?
Oggi l’edificio viene valutato per quello che si vede dall’esterno: se danneggiato e di poco pregio può essere valutato da demolire, ma sotto lo strato di malta (o mattoncini addossati di recente) può celare testimonianze del ‘300 e ‘400. Bisogna rimuovere gli intonaci prima d’intervenire, e ciò sia dal punto di vista statico – solo così si permette una seria valutazione del danno – sia dal punto di vista artistico, per rilevare cosa essi celino. Si rischia la demolizione e di ritrovarsi con le pietre ammucchiate di un edificio molto antico.
Il problema riguarda solo le demolizioni?
No. Il rischio è dovuto anche a una legislazione che nel restauro dell’antico dà un peso eccessivo alla ricostruzione con un intonaco armato costituito, ad esempio, da reti in fibre di carbonio, la cui efficacia però non può essere “spalmata” in maniera troppo univoca su tutto il tessuto antico senza analisi approfondite del singolo edificio. Si rischia di “fasciare” – internamente ed esternamente, legandolo poi con dei tiranti – il muro, che diventa come un sandwich, il cui interno – e parlo dal punto di vista statico – di fatto non è stato risanato col vecchio metodo del “cuci e scuci”. Metodo quest’ultimo che permette di operare con criteri diversi davanti a muri diversi. Del ‘200, del ‘300, del ‘700 oppure davanti alla raffazzonata e instabile ricostruzione ottocentesca.
Camerino è una città fiorita con la sua arte e architettura principalmente dal secondo ‘200 al primo ‘500 e in particolare con la dinastia dei Da Varano.
Noi individuiamo almeno tre città. C’è quella romana, i cui resti sono ancora nei sotterranei, compresi dei mosaici, e un’indagine seria non può prescindere da una documentazione di quel che c’è. Poi c’è la Camerino medioevale, rinascimentale e post-rinascimentale, generalmente solida, ma anche celata dagli intonaci. Infine c’è la Camerino della ricostruzione ottocentesca, la meno solida e la meno significativa. C’è il rischio di restituire il volto di quest’ultima, mantenendo in alcuni casi – seppur all’interno dell’intonaco armato – anche i suoi muri fatiscenti.
Ma chi può fare questo lavoro di documentazione e ricerca sapendo anche che la soprintendenza delle Marche sud è a molto a corto di personale?
Nell’incontro avuto pochi giorni fa nel Comune con il Commissario del sisma Guido Castelli, con la soprintendenza, l’Ufficio speciale ricostruzione sisma – Usr e le amministrazioni locali è emerso un vero interesse, completamente diverso rispetto al passato. Come porre soluzione? Debbono incrociarsi le competenze ingegneristiche sulla sicurezza strutturale dell’edificio con quelle dello storico, ma non solo: è impensabile che la Soprintendenza abbia le forze per occuparsi di un territorio così vasto e che abbia la conoscenza di tutti gli edifici antichi (o dei documenti catalogati, studiati, letti e approfonditi) che può avere chi se ne occupa da anni in un territorio più ristretto. Per questo, come firmatari dell’appello, ciascuno secondo le proprie competenze, mettiamo gratuitamente a disposizione le nostre conoscenze e studi per aiutare la lettura del tessuto urbano e quantomeno un certo ripensamento di certe rigide norme, che se applicate in maniera troppo univoca su tutto l’antico possono rivelarsi inadatte sul lungo termine. Un esempio: quei tetti di cemento imposti dalle normative antisismiche del passato, contro cui già Federico Zeri si era scagliato nel 1997 e che continuarono ad essere realizzati (ma diciamo pure “imposti perché antisismici”), durante il forte terremoto del 2016, rimanendo rigidi e pesanti, hanno letteralmente triturato molte chiese antiche come mai si era visto in passato. Il restauro filologico ha le sue ragioni. Anche statiche.
Nel documento citate l’esempio di un palazzo demolito e che aveva una superficie in pietre trecentesche e scrivete della programmata demolizione di un palazzo in piazza Sant’Angelo.
Il primo edificio dall’esterno presentava una struttura tardo ottocentesca di scarsissimo valore artistico. A demolizione avvenuta si è trovato un enorme mucchio di pietre squadrate del ‘300, oramai decontestualizzate, che indicavano un edificio di valore sotto quegli intonaci. Quanto all’altro edificio, i proprietari ci dicono di una demolizione programmata. Presentava forse un portale cinquecentesco da smontare e, poi, da rimontare a demolizione avvenuta, ma da una lettura più approfondita è emerso che si tratta del Palazzo del Capitano del Popolo, dove venivano firmati molti atti notarili tra il ‘400 e il ‘500. Non a caso chi ricorda la rimozione degli intonaci di venti anni fa, durante le ristrutturazioni dopo il terremoto del 1997, ricorda benissimo che tra le impalcature si intravedevano cinque grandi arcate di pietra, probabilmente un loggiato del ‘4-500 che è ancora lì. Lo demoliamo perché adesso non si vede o prima verifichiamo?
Un’obiezione: le analisi da voi prospettate non rallentano i lavori?
Al contrario: un’analisi preventiva accelera i lavori. Come si fa lo scavo preventivo prima di costruire un’autostrada per evitare di doverla interrompere imbattendosi in una villa romana, così l’indagine preventiva, in un tessuto al minimo tre-quattrocentesco, permette di trovare soluzioni prima di mettervi mano e prima di imbattersi in emergenze architettoniche che blocchino la ricostruzione. Lo rilevavano anche un recente comunicato del Commissario e uno del Comune. Senza contare che, se si constata che un edificio è di pregio e si preserva, si può accedere a una situazione contributiva migliore e a una via preferenziale nell’approvazione del progetto che accelera i tempi. Quello che sta ritardando i progetti – e temo li ritarderà ancora – è che i criteri a nostro avviso troppo “matematici” delle Norme tecniche per le costruzioni del 2018 mal si adattano all’antico. Molti progettisti ci hanno confidato che la riduzione eccessiva del “cuci e scuci”, ad eccessivo vantaggio dei metodi moderni ad esempio con rete in fibre di carbonio (che ancora non hanno l’avallo dei secoli), di fatto li preoccupa e li rallenta nella redazione di un progetto di restauro “classico” e più “filologico”.
Non si rischia uno stallo nella ricostruzione nelle aree interne dell’Appenino centrale, già colpite da un forte spopolamento?
I dati sono almeno tre. Il primo: forse un eccesso di spostamenti verso la costa, seppure in fase di emergenza, ha fatto sì che tante famiglie non tornassero, perché i bambini vanno a scuola e comincia un altro modo di vita. Il secondo aspetto: si dovrebbe riflettere se non si è promesso troppo dal punto di vista economico anche laddove il danno poteva essere valutato diversamente; parlo sia di singoli edifici che di ampiezza del cratere: questa promessa può aver rallentato i lavori proprio laddove era necessario intervenire con maggiore puntualità e con una valutazione attentissima del danno. Terzo aspetto: non è possibile far valutare il danno dallo stesso soggetto che poi ricostruirà. Si rischia poca oggettività in fase iniziale e di conseguenza una serie di incertezze e di controlli incrociati fin dalle prime tappe progettuali.
Qui sotto il link al reportage del 2022: “Nel centro storico di Camerino la vita non è tornata”
https://giornaledellospettacolo.globalist.it/saperi/2022/10/24/terremoto-2016-nel-centro-storico-di-camerino-la-vita-non-e-tornata/