Oriundi, tango, fútbol: Marco Ferrari ci narra miti ed epopee tra Italia e Sud America | Giornale dello Spettacolo
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Oriundi, tango, fútbol: Marco Ferrari ci narra miti ed epopee tra Italia e Sud America

La città con più italiani al mondo? San Paolo in Brasile. Pubblichiamo un brano da “Ahi Sudamerica!” dello scrittore ligure su calcio, emigrati e altre storie malinconiche ed esilaranti

Oriundi, tango, fútbol: Marco Ferrari ci narra miti ed epopee tra Italia e Sud America
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9 Luglio 2021 - 22.58


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Quanti italiani oggi sono grati a Jorginho, centrocampista che ha dato il suo bell’apporto nel condurre alla finale  degli Europei la Nazionale insieme agli altri guidati da Mancini? Come ricorda Wikipedia, è un “calciatore brasiliano naturalizzato italiano”: un oriundo, in altre parole. Cade a pennello il nuovo libro di Marco Ferrari Ahi Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol” nella collana “I Robinson /Storie di questo mondo” di Laterza (264 p., € 18,00), appena arrivato nelle librerie.  
Nell’aria si sente un forte odore di fainà. Per le strade si vende “O Balilla”, un giornale in dialetto, e i carbunin usano pantaloni bleu di Genova. Eppure non siamo sotto la Lanterna, ma dall’altra parte del mondo, a Buenos Aires. Qui sono gli italiani appena immigrati a far innamorare tutti del gioco più bello del mondo, il fútbol. Ahi Sudamerica! ne racconta le storie, esilaranti, malinconiche e struggenti, a cavallo tra le due sponde dell’Oceano, con in mente i personaggi strampalati di Osvaldo Soriano e come colonna sonora le note intense di Astor Piazzolla.
All’inizio del Novecento, Genova e Buenos Aires erano quasi un’unica città separata da un oceano di mare. Gli italiani superavano per numero gli immigrati degli altri paesi e i nativi messi assieme. È il tempo in cui “un argentino è un italiano che parla spagnolo ma pensa di essere inglese” e nella Parigi del Sud America tutti impazziscono per un nuovo sport: il football. Nascono allora squadre mitiche, dagli Xenienses del Boca Juniors ai millionarios del River Plate, senza dimenticare il Club Màrtires de Chicago, anarchico e socialista, e l’Indipendiente, ovvero “Indipendientes de la patronal”….
E dall’altra parte, come in un romanzo di Guareschi, il salesiano Lorenzo Massa faceva scendere in campo il San Lorenzo, la squadra oggi tifata anche da papa Francesco. Ma la febbre del calcio si trasmette a tutto il continente e gli italiani sono sempre i portatori sani di questa epidemia, da San Paolo del Brasile a Caracas, da Asunción a Montevideo.
In tutte queste squadre presto cominciano a crescere gli “oriundi”, ovvero tutti coloro che scelsero il pallone come metodo più sicuro per percorrere a ritroso la strada verso l’Europa. Scopriremo così le imprese e le avventure improbabili di calciatori geniali e destinati a segnare la storia: dal capitano del Bologna Badini al trio delle meraviglie del Torino fino al grandioso Guillermo Antonio Stabile, el filtrador. Così tra i tangueros della Juventus, da Cesarini a Sivori, il Bologna urugagio voluto da Mussolini e i romanisti, “traditori della patria”, in fuga dal regime fascista, ci sorprenderemo e commuoveremo di fronte alle vicende di questi figli dell’Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico, come scriveva Jorge Luis Borges. Storie malinconiche e surreali in cui pure Lionel Messi, la pulga, può scoprire di avere qualcosa in comune con Giacomo Leopardi. 
Marco Ferrari, giornalista che ha lavorato tra l’altro a l’Unità, scrittore e autore televisivo, è nato a La Spezia del 1952 e ha pubblicato romanzi di ottima scrittura dallo sguardo tra malinconia, disincanto e sorriso  come Tirreno (1988), I sogni di Tristan (1994), Alla Rivoluzione sulla Due Cavalli (1995), Grand Hotel Oceano (1996) e Ti ricordi Glauber (1999).
Da “Ahi Sudamerica!” pubblichiamo il capitolo su San Paolo, la metropoli brasiliana, su gentile concessione dell’autore. 
Marco Ferrari: San Paolo metropoli italiana
Se chiedessimo quali sono le città con più italiani al mondo, saremmo sicuri della risposta: Roma e Milano. Ma non è così. La città con più italiani sul pianeta è San Paolo. Ed è anche la città con più napoletani al mondo, seguita da Buenos Aires.
Sulle prima la città provoca un certo sgomento per gli agglomerati urbani confusi e ordinari, i grattacieli contrapposti alle favelas, l’ostentazione della ricchezza e della povertà, un profilo sterminato di palazzi su colline irregolari e paesaggi irrequieti, la sagoma di edifici elevati spesso avvolti in una nube d’inquinamento. Ma all’addentrarsi nel cuore della metropoli, ecco spuntare respiri evidenti di percorsi di vita, personali e collettivi, che hanno forgiato questo paese d’immigrazione. 
Nel 1914, alla vigilia della Grande Guerra, São Paulo non era ancora la metropoli di oggi, con i suoi 27 milioni  di abitanti distribuiti nella regione. A quell’epoca contava poco più di 300 mila persone, ma già la comunità italiana era la più numerosa e operosa. Ogni anno a Rio de Janeiro e Santos i piroscafi scaricavano migliaia di italiani. Nel solo anno di grazia 1891 su 215.239 ingressi in Brasile, 132.326 erano italiani. Dal 1887 al 1902 sbarcarono 1.129.265 italiani che andarono a sostituire gli schiavi neri delle piantagioni del caffè. Oggi si calcola che nel paese della bossa nova vivano 25-30 milioni di discendenti di immigrati italiani, il 15% della sola popolazione urbana.
Divenuto indipendente del 1822, l’impero brasiliano decise di “sbiancare” il paese favorendo l’immigrazione dal Vecchio Continente. Una volta abolita la schiavitù con la Legge Aurea nel 1888, venne promossa l’immigrazione sussidiata degli italiani che altrimenti non avrebbero avuto potuto pagarsi il costoso trasferimento marittimo.
L’esodo biblico degli italiani verso il Brasile fu incrementato da agenti d’immigrazione – nel 1985 in Italia erano aperte ben 33 agenzie dedite a quel traffico umano con più di settemila addetti distribuiti sul territorio nazionale – che offrivano passaggi gratuiti a intere famiglie in tutta la penisola, che invogliavano gli italiani a piantare le loro tende in zone di nuova espansione dove mancava manodopera preparata, popolazione di pelle bianca, gente pronta a difendere con le armi il pezzo di terra assegnato da uno Stato magnanimo. A differenza dei coloni inglesi, francesi, olandesi, figli di una grandeur plurisecolare, i nostri talian non avevano sangue nobile da versare, non sapevano né leggere né scrivere, ma sapevano rimboccarsi le maniche, arrangiarsi, fare squadra, disboscare le foreste, affondare la zappa in zolle dure e affrontare l’aridità delle pianure. Nascevano vere e proprie catene di emigrazione con accoglienza e protezione, sino al limite e oltre il lecito, come ci ha insegnato la storia tormentata di grandi metropoli. Una vicenda oramai conservata nei cassetti di famiglia o nei musei, anche se le fotografie, le lettere, le bacheche, le valigie di cartone e le sacche da marinaio non possono certo contenere l’insieme dei sacrifici umani consumati sulle rotte degli oceani. 

L’emigrazione sussidiata terminò nel marzo 1902 con il decreto Prinetti lasciando spazio ad un flusso migratorio personale e qualificato. Al di là di chi decise di tornare indietro per le difficoltà ad accettare le regole ferree e coloniali della fazenda, molti italiani si inurbarono nelle aree di nuova espansione industriale come San Paolo. Anche qui come altrove gli emigrati si riunivano sulla base della loro provenienza facendo nascere quartieri come Bixiga, Barra Funda o Mooca dove ancora imperavano i dialetti e le cucine regionali, dove si pregavano santi della tradizione e dove i nomi dei negozi e dei ritrovi erano tutti italiani. La scaltrezza negli affari portò al soprannome di carcamanos, cioè coloro che poggiavano la mano sulla bilancia per aumentare il peso delle merci da vendere. Nel 1893 un terzo della popolazione paolista era italiano. Col tempo la percentuale si abbassò di molto, ma oramai gran parte della classe media, artigianale, industriale e commerciale era originaria della penisola. Una élite che contribuì all’edificazione della città, alla costruzione di palazzi, monumenti, cimiteri, centri culturali, giornali, circoli artistici e sportivi visti come strumenti di educazione. L’attività fisica venne incoraggiata e allargata alle classi meno abbienti che cominciavano a praticare sport come il tennis, il canottaggio, il tiro, la pelota basca e anche il nascente futebol.

Così, quando la comunità italiana consolidò le proprie basi sociali ed economiche a San Paolo, i circoli decisero di invitare quelli che erano gli esempi migliori del Belpaese calcistico: la Pro Vercelli, capace di vincere tre scudetti di seguito, 1911, 1912 e 1913, e il suo miglior avversario, il Torino.
Era stato Charles Miller a introdurre il football in Brasile senza minimamente intuire che avrebbe creato la più degna stirpe di interpreti del calcio moderno. Miller era nato a San Paolo nel 1874 da John, ingegnere scozzese impiegato nella costruzione delle ferrovie, e da madre brasiliana, anche lei di discendenza inglese, Carlota Fox. Inviato a studiare a Southampton, alla scuola pubblica Banister Court, apprese a giocare a football e a cricket. Rientrò in Brasile nel 1894 sbarcando a Santos con due palloni sottobraccio. Il padre John restò stupito: «Cosa sarebbero quelle cose?» chiese. «La mia laurea» rispose il figlio raccontando le sue imprese come ala sinistra nel St. Mary’s, il precursore del Southampton FC. Charles convinse gli amici a formare il São Paulo Athletic Club e quindi la Liga Paulista, gli albori del calcio brasiliano.

Nel 1902 a San Paolo ebbe inizio il primo campionato di calcio. A Rio de Janeiro il calcio lo introdusse un altro anglo-brasiliano, tale Oscar Cox, portando il primo pallone carioca al suo rientro da Losanna. Nel 1901 Cox organizzò la prima partita di calcio tra i componenti della Rio Cricket and Athletic Association e alcuni giovani benestanti locali, desiderosi di conoscere le novità che provenivano dall’Europa. Di lì a poco Cox fondò la Fluminense. Ma il primo vero club calcistico brasiliano fu fondato nel 1900 da una colonia di tedeschi nel Rio Grande, al confine con l’Uruguay. Svincolatosi per ultimo dalla schiavitù, il Brasile vide una massa immensa di ragazzi neri cercare fortuna nelle città. A Rio de Janeiro appresero a giocare al calcio proprio guardando le partite della Fluminense e si accorsero che potevano esportarlo anche nelle strade, magari utilizzando una palla di stracci. Così già nel 1910 in ogni quartiere di Rio c’era una squadra di calcio. La prima ad utilizzare calciatori di colore fu l’Athletic Club fondata nel 1904 da imprenditori tessili inglesi nel sobborgo di Bangu. Il Vasco da Gama, squadra della comunità portoghese di Rio, vinse il suo primo scudetto nel 1923 con tre neri, un mulatto e sette bianchi, prelevati da altre società, tutti assunti nei negozi dei commercianti locali e inviati alle scuole serali per apprendere a leggere e scrivere. Nel 1933 la squadra del Rio Bonsucesso era interamente formata da calciatori di colore.
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