di Giuseppe Costigliola
«La vostra leggenda del Piave al fronte è più di un generale!» Con questo telegramma Armando Diaz, comandante supremo dell’esercito italiano impegnato in una devastante guerra contro l’Impero austro-ungarico, omaggiò nel 1918 Giovanni Gaeta, l’autore di una canzone immortale: “La Leggenda del Piave”, conosciuta anche come “La Canzone del Piave”, o, per antonomasia, “Il Piave”.
Personaggio singolare, Giovannino, dall’ispirazione ipercinetica e il carattere fumantino. Barbiere nel salone del padre, s’avvicinò alla musica per caso. Abbandonato il sogno salgariano di girare il mondo come capitano di bastimenti mercantili, un giorno trovò nella bottega un mandolino dimenticato da un cliente. Affascinato dallo strumento, le cui note agrodolci risuonavano ovunque nella sua Napoli, appassionato delle melodiose poesie di Salvatore Di Giacomo, Gaeta si procurò il metodo Sonzogno per autodidatta e si mise di buona lena a studiare musica e a scrivere canzoni. Nel frattempo, nel 1902 vinse un concorso bandito dalle Regie Poste e prese servizio a Bergamo.
Un giorno si presentò allo sportello un noto maestro di musica, che aveva un contratto con la Casa Ricordi: l’intraprendente Giovannino colse l’occasione e gli consegnò una sua canzone. Fu così che divenne un compositore oltremodo prolifico. Preso il nome d’arte di E.A. Mario, scrisse oltre 2000 tra liriche e canzoni, tra cui dei classici della canzone napoletana come Vipera, Le rose rosse, Santa Lucia luntana, Balocchi e profumi, e la celeberrima Tammurriata nera, di cui musicò il testo, del consuocero Edoardo Nicolardi.
Scoppiata la Prima guerra mondiale, Gaeta fu esonerato in quanto figlio di madre vedova, ma non si volle sottrarre al richiamo della patria e si fece assegnare al servizio dei treni postali, che recapitavano le lettere ai soldati al fronte.
Ed ecco la Storia, che come sempre ci mette lo zampino: il 15 giugno 1918 gli austro-ungarici sferrarono un’offensiva sul fiume Piave, dov’era attestato il fronte, provando a forzare le linee e a capitalizzare la vittoria del 4 novembre 1917, da noi tristemente nota come la disfatta di Caporetto. Le battaglie, cruentissime, si protrassero sino al 23 giugno. Gli invasori riuscirono ad approdare sulla sponda destra in diversi punti, ma le forze italiane infine sbaragliarono il nemico, tramutando quell’offensiva in una disfatta: tra morti, feriti e prigionieri gli austro-ungarici persero quasi 150.000 uomini; gli italiani, circa 90.000 uomini. La battaglia del Solstizio, come venne poeticamente ribattezzata dal D’Annunzio, risultò decisiva per le sorti del conflitto sul fronte italiano.
Ora, per superare quella carneficina bisognava proiettarla nel mito. Leggenda vuole che la notte del 24 giugno Giovanni Gaeta (che quel giorno festeggiava anche l’onomastico) vergò sul retro di alcuni moduli postali (conservati oggi a Roma, nel Museo storico della comunicazione) i versi d’una canzone, dando voce e sacralità al fiume che con le sue acque furiose aveva contribuito a fermare il nemico. Poi stampò su dei foglietti il testo, sul retro la linea melodica, e li mandò al fronte, ad un amico bersagliere, cantante di varietà e napoletano come lui. Questi, come scrisse nelle sue memorie, la intonò per la prima volta nella sala d’un caffè di Mestre, accompagnato al piano dal commilitone e compaesano Eugenio Niccolini: riscosse un immediato, caloroso successo. Quell’uomo si chiamava Raffaele Gottardo, in arte Enrico Demma. Sarà stata l’enorme gioia per la battaglia vinta, i versi patriottici e marziali, la musica semplice e incalzante (quattro strofe, con le quinte dominanti che riconducono sempre alla stessa tonalità, il fa maggiore), fatto sta che la canzone in un lampo divenne popolare fra le truppe.
Sempre si narra che, tornato a Napoli, Gaeta sentì per strada dei soldati in licenza cantare il brano, e nel settembre lo pubblicò. Il frontespizio recava un’incisione dell’illustratore Amos Scorzon, raffigurante un’aquila bicipite (l’Austria) trafitta da un gladio (l’Italia) coperto di sangue, con inciso nell’elsa le lettere SPQR, insieme a una frase di D’Annunzio: «Non c’è più se non un fiume in Italia, il Piave; la vena maestra della nostra vita». V’erano poi i dati del compositore: «Versi e musica E. A. Mario, casa editrice musicale E. A. Mario, via Vittorio Emanuele Orlando 9, Napoli», e la precisazione che il fiume Piave era consacrato «ai soldati che lo santificarono, agli alleati che lo ammirarono, ai nemici che lo ricorderanno».
Quello stesso mese la presentò al Teatro Rossini. A intonarne i versi fu un’artista milanese, Gina De Chamery (al secolo Luigia Pizzoni Negri), e i numerosi fanti presenti in sala si unirono subito al coro: era già la loro canzone.
La consacrazione ufficiale arrivò a Roma nel 1921, durante la cerimonia di tumulazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria, quando la banda dei Carabinieri attaccò “La Leggenda del Piave”. Pare che Vittorio Emanuele III ascoltandola s’incuriosì, e volle conoscere l’ignoto impiegato postale autore di quel brano già così epico. Lo fece rintracciare e convocare in udienza al Quirinale, dove il basito Gaeta fu insignito del titolo di Commendatore della Corona d’Italia.
Ma la storia non ha esattamente un lieto fine: del resto si sa, siamo in Italia. Due anni dopo il commendator Gaeta fu licenziato dalle Poste per la sua parallela attività di musicista, e per anni s’arrabbattò a scrivere canzoni, comunque di successo.
Ma se la passava male, e nel 1933 fu riassunto, pur se come avventizio, con uno stipendiucolo che bastava appena. Ma come, e i diritti della “Leggenda del Piave”?, si dirà. Be’, gli furono negati, lo Stato lo considerava un “inno ufficiale”, anche se non lo era, dunque se ne riteneva proprietario. Gaeta ingaggiò una battaglia legale contro una rapinosa Siae, e dopo vent’anni ottenne un indennizzo, che però non gli venne erogato: intanto era scoppiata l’altra guerra. Quegli spiccioli gli arrivarono quando la lira era ormai ridotta a carta straccia.
Poi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il governo italiano adottò la sua canzone come inno nazionale, sostituendo la Marcia Reale, che evocava odiose compromissioni della monarchia italiana con la dittatura fascista, e tale rimase sino all’adozione provvisoria da parte del Consiglio dei ministri dell’inno di Mameli-Novaro, il 12 ottobre del 1946.
Per una strana coincidenza Giovannino Gaeta, alias E. A. Mario, si spense a Napoli (dov’era nato nel 1884) proprio quel giorno fatale, il 24 giugno, nel 1961. Enrico Demma, il primo interprete della canzone, morì nel 1975.
“La Leggenda del Piave” consta di quattro strofe, e in esse Gaeta ha inteso condensare la lotta di liberazione italiana contro l’invasore straniero, dalla prima che evoca l’inizio della guerra, alla disfatta di Caporetto, alla vittoria finale. La quarta e ultima strofa («Indietreggiò il nemico sino a Trieste, sino a Trento / e la vittoria sciolse le ali al vento»), l’aggiunse cinque giorni dopo la fine del conflitto, il 9 novembre 1918.
Il brano è stato eseguito innumerevoli volte, da bande e orchestre istituzionali e non, anche e soprattutto in occasione delle celebrazioni per la Festa della Repubblica, dell’Anniversario della Liberazione e della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate. È dunque assurto a simbolo di lotta per la libertà, contro l’invasore e ogni forma di costrizione indotta con la violenza.
Appare quindi davvero assurdo il tentativo di strumentalizzazione di cui esso viene periodicamente fatto oggetto da parte di certi politici. Cominciò Umberto Bossi quando, il 21 luglio 2008, lasciò intendere che se fosse stato per lui “La Leggenda del Piave” avrebbe sostituito “Fratelli d’Italia” come inno nazionale. L’allora leader della Lega Nord, nonché Ministro delle riforme, da sempre antimeridionalista, ignorava certo che chi scrisse quel brano fosse un napoletano verace, celebre autore di canzoni e poesie in dialetto partenopeo.
Ma Bossi è stato ben superato da certi esponenti dell’odierna destra, il cui uso strumentale della canzone avrebbe certo indignato l’autore, e le migliaia di fanti che la intonarono commossi. Il suggerimento di cantare “La Leggenda del Piave” il 25 Aprile al posto di “Bella ciao” ha davvero del grottesco, provenendo dai figliocci mai pentiti di quel fascismo che con l’invasore tedesco s’alleò, stringendo un patto infernale che avrebbe determinato la distruzione fisica e morale della patria che dicono di amare. Con quale coraggio costoro possono intonare quei versi che ancora grondano sangue, il sangue versato dagli eserciti del generale tedesco Ludendorff, dagli uomini del giovane tenente Rommel che a Caporetto si distinse, oltre che dai tanti militari austriaci? Come possono mai intonare “Il Piave mormorò: Non passa lo straniero!” quando quello straniero è lo stesso di cui i fascisti venticinque anni dopo si resero complici, spalancando ai nazisti le porte dell’Italia e aiutandoli operosamente a menar stragi per tutto il Paese? Ancora una volta, questi scellerati hanno perso una buona occasione per evitare che lo scherno e la vergogna ricadano sulle loro facce di bronzo.