di Marco Buttafuoco
Si dice che il virus, dove più infuria, stia facendo sparire una generazione e nel mondo del jazz questa proposizione sembra sempre più vera. Ieri è mancato Lee Konitz, una delle figure più importanti della storia di questa musica. Era nato a Chicago il 13 ottobre del 1927. La sua fu una carriera lunghissima. Chi scrive l’ha ascoltato suonare, ancora a grandi livelli (nonostante si lamentasse, lui celebre per la cura di un suono nitido e “astratto”, per le pessime performance del suo sax), nel novembre del 2017 a Bologna.
Il suo stile è stato etichettato e inquadrato come cool, secondo la denominazione di quella corrente jazzistica che negli anni ’50 si affermò fra i musicisti bianchi della California. Uno stile meno legato a certe radici afro-americane ma che interessò anche Miles Davis che gli dedicò una dei suoi più celebri dischi, intitolato proprio Birth Of The Cool, una delle sue tante spiazzanti, meravigliose svolte, alle quali partecipò lo stesso Konitz. Lee fu quindi un innovatore del linguaggio jazzistico, ma, allo stesso tempo, distante dal movimento bop.
L’aneddotica, esercizio fondamentale fra i jazzofili, vuole che Konitz e Charlie Parker s’incontrassero a New York nel 1948 e che quest’ultimo si fosse complimentato con il più giovane collega bianco dicendogli “Complimenti, sei l’unico in giro che non cerca di suonare come me”.
Interessante in questo senso è anche la testimonianza di Franco Ambrosetti, trombettista luganese che racconta un episodio avvenuto durante un festival a Chicago, negli anni Novanta, ripreso anche nella sua autobiografia “La scelta di non scegliere”. “Ci siamo ritrovati una sera con Enrico Rava, che era stato invitato con i suoi Quatre in uno dei locali cittadini dove avvenivano delle jam sessions; il Jazz Showcase. Lee Konitz suonava là con il suo gruppo e ci siamo uniti a lui. Non era la prima volta che mi trovavo a fianco di Lee, uomo dal carattere saturnino e introverso, ma un colosso della storia del jazz. Suonammo il primo pezzo e chiesi a Lee cosa gli sarebbe piaciuto suonare. Anzi, gli proposi Oleo, il brano di Sonny Rollins. Lui mi guardò e mi disse “Franco, please, let’s play white music”. Rimasi sbalordito. Mi chiedevo cosa mai volesse dire. Poi mi si accese la lampadina e capii. Lee era considerato l’anti – Parker. Ai tempi di Bird lui suonava una musica totalmente differente, il cool. Questo stile, che Lee ha approfondito mirabilmente, è in qualche maniera l’esatto opposto di quello che s’intende per musica nera. Naturalmente io non credo per niente a questa distinzione, per me non è per niente giustificato creare artificialmente distinzioni di questo tipo. Ma Lee era fatto così. Immediato, brusco, umorale”.
Citare tutti gli artisti importanti con i quali ha collaborato sarebbe un’impresa destinata a qualche grave dimenticanza. Bastano forse i nomi di Miles Davis, Gil Evans, Elvin Jones, Joe Henderson, Michel Petrucciani, Enrico Rava possono forse bastare a dare un’idea della grandezza dello scontroso sassofonista chicagoano e del suo ruolo nella vicenda jazzistica.
In Italia collaborò, fra gli altri, con Franco D’Andrea, Stefano Bollani, Renato Sellani, Tiziana Ghiglioni. La cantante ricorda “i suoi soli così fluidi, la sua calma serafica, i fili intorno al mio canto (spesso intimidito da tanta grandezza) il suo suono avvolgente, addirittura affettuoso. Essere vicino a un grande improvvisatore come lui era come frequentare in un tempo breve una grande scuola di musica. Sapeva affrontare tutte le materie musicali, poteva suonare Ellington o, come fece in un disco con Umberto Petrin, Scriabin. E in tutto metteva la competenza più profonda e la semplicità, la dote di chi ha genio, più totale”.