«Da Guccini a Motta, così cambia la “canzone d’autore”» | Giornale dello Spettacolo
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«Da Guccini a Motta, così cambia la “canzone d’autore”»

Enrico De Angelis 50 anni fa coniò la definizione. Ne parla qui, dai cantautori fino al rap. Venerdì a Roma si celebra la ricorrenza con una serata-concerto (e guardate chi c'è nella foto)

«Da Guccini a Motta, così cambia la “canzone d’autore”»
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11 Dicembre 2019 - 11.53


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Giordano Casiraghi

Il 13 dicembre 1969 sul quotidiano L’Arena di Verona usciva un articolo in cui per la prima volta si qualificava il termine “canzone d’autore”. A scriverlo un giovane Enrico De Angelis, attratto dalle canzoni di Paoli, Tenco, De André. Sarà la rassegna del Club Tenco a porre sigillo su questo termine, preferendolo a canzone d’arte. A seguire, De Angelis assumerà incarico di direttore artistico della prestigiosa rassegna ideata da Amilcare Rambaldi.
A Roma, venerdì 13 dicembre alle 21 presso Officina delle arti Pierpaolo Pasolini ci sarà un incontro-spettacolo con la partecipazione dello stesso De Angelis e degli artisti Lucilla Galeazzi, Pino Marino, Raffaella Misiti, Alessandra Casale, Pino Pavone, Piji, Tetes De Bois, Carlo Valente e Tosca. Ingresso libero fino esaurimento posti.
Abbiamo raggiunto Enrico De Angelis per un approfondimento sulla canzone d’autore e a che punto siamo della sua evoluzione.

Da 50 anni la si chiama canzone d’autore, prima come si chiamava e chi erano i rappresentanti che poi vennero inclusi in quella categoria?
Di per sé una “canzone d’autore” è sempre esistita, ma una contrapposizione consapevole e dichiarata tra canzone commerciale, puramente di consumo, e una canzone più autentica, realistica e poetica, si fa notare solo con l’avvento in Italia dei cantautori fine anni ‘50-inizio ‘60, quindi da Modugno in avanti, per cui fino ad allora nessuno aveva pensato di etichettare quella seconda categoria. Sulle prime si tendeva (e si tende tuttora) a identificarla con la produzione dei “cantautori”. Nel ‘64 però Umberto Eco scrive la prefazione a quello che è il primo libro che tenta un’analisi seria della cosiddetta “musica leggera” (“Le canzoni della cattiva coscienza” di De Maria-Jona-Liberovici-Straniero) e prova a dare un nome a questa produzione di qualità, anche indipendentemente dalla figura del cantautore, com’è giusto che sia: pure le canzoni di Calvino & Liberovici, che Eco aveva ben presente in quel momento, entrano infatti in quella accezione, e analogamente possiamo pensare a quelle di Brecht-Weill o Prévert-Kosma, che mica erano cantautori… Eco allora si limita a chiamarle “canzoni diverse”. Tanto che quando pensai anch’io a un nome da dare alla mia rubrica su L’Arena nel 1969, scrissi in prima battuta proprio “Le canzoni diverse”. Lo prova il manoscritto che ancora conservo, dove però si vede che quella dicitura è stata poi da me depennata a favore di “La canzone d’autore”.

C’è quella foto che rimane storica, allo stesso tavolo tante personalità. Cosa ricordi di quella volta? Era la prima con tutte quelle persone?
Si tratta di un “unicum”. La foto ritrae infatti una cena organizzata sì dal Club Tenco ma non nell’ambito della nostra rassegna. Si tratta di una richiesta che ci fece la Rai per raccogliere persone competenti allo scopo di registrare un programma tv sul nostro tema; per la precisione il programma era uno speciale del Tg1, si intitolava “Niente da capire?”, gli autori erano Nino Criscenti e Luciano Teodori. La cena si tenne al ristorante “La Vecchia” di Dolceacqua il 28 novembre 1981. La foto che circola fu scattata da mia moglie Alba Avesini, e sono visibili da sinistra il sottoscritto, Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Amilcare Rambaldi, Sergio Bardotti, Renzo Arbore, Arrigo Polillo, Sergio Endrigo, Pippo Barzizza, Pierangelo Bertoli, e Daria Colombo (moglie di Vecchioni e oggi scrittrice). Quella sera c’erano anche, non visibili nella foto, Gino Paoli, Claudio Lolli, Nico Orengo, Bonvi, Guido De Maria e altri. Il programma andò poi in onda nel 1982, integrato con altri servizi, e di quella cena rimasero solo pochi frammenti.

Una passione che si è trasformata negli anni, fino a diventare uno dei massimi esperti della canzone d’autore. Sei sempre riuscito a separare la passione dalla professione?
Io ho avuto effettivamente la fortuna di poter conciliare la mia passione musicale, che arriva dalla prima adolescenza se non dall’infanzia, col mio lavoro, il mestiere giornalistico. Non che da giornalista mi sia occupato solo di musica, anzi: per metà carriera ho lavorato in cronaca, occupandomi di vari aspetti della società, e solo per l’altra metà ho lavorato nel settore cultura-spettacoli; ma certo fin dall’inizio ho sempre scritto, contemporaneamente, anche di musica. Quell’articolo in cui compare per la prima volta “canzone d’autore” uscì una ventina giorni dopo che ero stato assunto, quando ovviamente in redazione ero stato messo a fare tutt’altro. Se però la domanda intende chiedere se sono riuscito a separare professionalità e passione, cioè a scrivere di musica con spirito libero, indipendente dai miei gusti o addirittura dalle amicizie con gli artisti che l’attività col Club Tenco mi ha inevitabilmente procurato, be’, allora credo di poter dire di sì. Il libro “Musica sulla carta” dove ho raccolto una gran quantità di recensioni musicali lo può provare…

Come si è trasformata nei decenni la canzone d’autore, qualche esempio di artisti che hanno marcato un cambio di stile.
Partiamo da un presupposto: la canzone d’autore non è un “genere musicale”. È un’impostazione trasversale che può realizzarsi con qualunque linguaggio musicale. Quindi negli anni ha effettivamente conosciuto varie forme. Se il primo stile, a partire da Modugno, è stato quello “francese”, a metà anni ‘60 Guccini e Dalla hanno recepito l’influenza della musica americana, il folk, il blues, il rock. La svolta ulteriormente dylaniana e visionaria l’hanno data De Gregori & c nei primi anni ‘70. Ho citato Modugno, ma Modugno è importante anche per aver impresso contemporaneamente, fin dai primi anni ‘50, un forte legame tra la canzone d’autore e la nostra tradizione popolare, filone che si è poi sviluppato negli anni ‘70 col movimento del folk-revival (un nome per tutti: la Nuova Compagnia di Canto Popolare), quindi con la svolta storica di Crêuza de mä, e infine negli anni ‘90 con i gruppi vicini alla world music (un nome per tutti: i Mau Mau). Nel frattempo un’altra corrente, per esempio, è nata sull’onda dell’influenza di Paolo Conte e di Tom Waits; primeggiava in questo Capossela, che però poi ha avuto la genialità di trasformare quelle ascendenze in una personalità tutta sua, specifica. Un altro cambio di stile l’ha segnata gente come David Riondino o Freak Antoni, nello sdoganare una moderna canzone umoristica e satirica, meritevole di attenzione. E così via…

Giusto per non fare confusione, quando è possibile chiamare canzone d’autore e quando no. Per esempio i casi dove un artista scrive le musiche ma non i testi? (Mogol Battisti come esempio più popolare)
Premesso che anche la definizione di “canzone d’autore”, per quanto io ne sia ovviamente un fedele affezionato…, non ha un valore preciso, rigoroso, oggettivo, scientifico (come del resto quasi tutte le espressioni del linguaggio…), e lasciata da parte la peregrina e ovvia obiezione che “tutte le canzoni hanno un autore”… nella nostra accezione mi pare si possa dire, in sintesi, che una “canzone d’autore” è quella che trasmette l’autentico universo poetico e la reale visione del mondo di una persona precisa, globale e pensante, e non strategie di cattura del consenso o del profitto economico. Non ha rilevanza il problema se l’“autore” che attraverso di essa si manifesta abbia scritto solo i testi o solo le musiche. Pensiamo a binomi storici come Chiosso-Buscaglione, Nisa-Carosone, Calabrese-Bindi, Ciampi-Marchetti… Pensiamo a un Gilbert Bècaud, che non scriveva i testi. In questi e in tanti altri casi, il risultato complessivo è comunque quello di un “tutto organico”, coerente con le sfaccettature artistiche e psicologiche del frontman che ci mette la faccia, la voce, oltre che in un caso le parole e in un altro la musica; si tratta di una sinergia fra testi e musiche, pur di persone diverse, per cui il prodotto finale documenta autenticamente l’idea, la fantasia e il sentimento reale dell’artista che su quelle parole, pur firmate da altri, sta apponendo la propria musica, o viceversa. Oltre che il proprio canto.

Negli anni 70 il pubblico si era molto orientato verso i gruppi pop che hanno nella maggior parte dei casi messo in risalto l’aspetto della musica più che delle liriche. Ricordi qualcuno di questi che invece merita interesse anche dal punto di vista dei testi?
Assolutamente sì. I Jumbo, il Banco, la Pfm, il Canzoniere del Lazio e, su un fronte un po’’ diverso, gli Stormy Six o l’Ensemble Havadià di Moni Ovadia. Che questi gruppi abbiano applicato a dei buoni testi delle musiche più articolate, più ricche, più creative rispetto a quelle di molti cantautori (una certa parte, mica tutti!), è solo un titolo di merito che qualifica ancor più il concetto di “canzone d’autore”. Naturalmente poteva e può verificarsi l’eccesso opposto: che una certa ricchezza musicale non si sposasse con testi di spessore, e allora l’idea di “canzone d’autore” non si configura più…

Da oltre un decennio la canzone d’autore è stata contaminata dallo stile rap e poi trap. Secondo te è tutto classificabile come canzone d’autore?
Come ho detto, la canzone d’autore può assumere qualunque forma musicale, quindi anche quella del rap. Il problema sta forse nel fatto che, essendo la canzone comunque un fatto di unione inscindibile tra parola e musica, il rap pende più sul primo versante e dal punto di vista creativo l’aspetto musicale si sta riducendo a formule ripetitive, che mi sembrano poco interessanti, pur accettando l’idea che la musica può non essere solo melodia, bensì ritmo, suoni, ecc.; ma, come dice Chico Buarque de Hollanda, ci sembra più rhythm and poetry che canzone. In ogni caso, il disequilibrio testo-musica ne penalizza la qualità se dobbiamo guardarlo come “canzone d’autore”.

Qualcuno ha detto che queste nuove generazioni possono fare a meno di quello che c’è stato prima e così sentirsi più liberi di proporre brani senza guardarsi indietro. Che ne pensi?
Non la penso affatto così. La memoria, il bagaglio culturale che ci portiamo dietro, anche in fatto di musica come in qualunque altra disciplina, sono invece necessari per innovare, per guardare avanti.

Tra le nuove voci maschili e femminili assimilabili alla canzone d’autore vuoi fare qualche nome meritevole d’attenzione?
Volentieri. Non sono proprio “nuovi”, ormai, ma penso a Brunori, Dente, Mannarino, Dimartino, Motta… Più ancora da tener d’occhio, Giovanni Truppi, Gianluca Secco, Alfina Scorza, Vanessa Tagliabue Yorke, Ivan Talarico… Penso anche a tutte le eccellenti cantautrici che vengono fuori dal Premio Bianca d’Aponte. Di buoni talenti giovani ce ne sono tanti, ve l’assicuro, solo che restano nascosti: bisogna aver voglia di cercarli, ovunque, come io e certi miei collaboratori abbiamo sempre fatto quando operavamo nel Club Tenco.

Le varie rassegne dedicate alla canzone d’autore hanno ancora un senso? Devono mantenere fede alla tradizione o devono evolversi verso le nuove forme stilistiche?
Queste rassegne hanno senso se da esse non ci si aspetta troppo. Se si spera che possano servire ad andare in tv o ad avere un contratto discografico, allora no. Servono però a incontrarsi, a riconoscersi, a farsi scoprire da cerchie competenti di appassionati e di giornalisti specializzati. E comunque si tratta sempre di un’occasione per suonare dal vivo, che resta la pratica migliore, sia per l’artista che per lo spettatore, per trasmettere musica. Quanto ad evolversi verso nuove forme stilistiche, certamente sì.

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