Giordano Casiraghi
A Napoli per ascoltare Sto tutto fusion, nuovo capitolo discografico di Ciccio Merolla che coniuga rap e tradizione, quella che arriva da lontano e spazia in varie parti del mondo. Merolla ci accoglie nella sua abitazione, in un vicolo antistante alla galleria e a pochi passi dal castello Maschio Angioino. Sto tutto fusion si muove su vari binari, allargandosi ad ampio raggio formando un percorso circolare, dove tutto ha inizio e dove tutto ricomincia. Uno dopo l’altro i brani catturano facilmente l’ascolto, arrivando a risultare orecchiabili ma mai ammiccanti. Due elementi tengono testa a tutto il discorso, il ritmo e l’elettronica.
L’album parte con Bolevo Veggae, un invito a pensare positivo e non lamentarsi per nulla, con l’ondeggiante ritmo reggae e una melodia che avvolge e mette di buon umore, una canzone nella miglior tradizione napoletana, ovviamente con un testo rigorosamente in napoletano. Ancora arioso e solare Giorno migliore, stavolta in italiano, con raddoppi vocali e il ritmo reggae a cullare sogni che si avvereranno. In ogni dove spuntano veri e propri assoli di percussione a marcare il ritmo, caratteristica che si presenta lungo tutto l’album. Una presa in giro delle nuove abitudini collegate all’uso dei cellulari arriva con Followers, dove a tenere unito il tutto ci pensano le tastiere di Piero De Asmundis e le programmazioni elettroniche di Andrea «Oluwong» Esposito che, insieme alle liriche di Giuseppe «PeppOh» Sica, costituiscono il gruppo di lavoro che ha sviluppato e realizzato l’album. Due i brani interamente strumentali, di tante percussioni, uno è Il campanello, molto suggestivo nella sua ciclica ripetitività, quindi Bedroom dove emergono echi del mediterraneo con l’inserimento dello scacciapensieri. Altro brano che potrebbe perfino diventare un tormentone è Stai Fusion con una bella coralità, di taglio afro beat, con un testo decisamente controcorrente, che richiama la fratellanza universale. Ciccio Merolla che non dimentica di essere stato un rapper eccolo rielaborare l’hip hop con Fore e Se chiama ammore, mentre ci avviamo agli ultimi brani, molto ritmici, non a caso A tempo, con citazione per Nanà Vasconcelos mentre il finale Mpast va dritto a Nusrat Fateh Ali Khan, compianto maestro del ritmo pakistano, già alla corte di Peter Gabriel.
Con questo capitolo discografico, il quarto dopo Nun pressà ‘o sole (2004), Kokoro (2008), Fratammé (2010) , Ciccio Merolla entra di diritto nel Naple’s Power ideato da Renato Marengo che spiega così questo riconoscimento: «Grazie alla passione per la musica e al talento per il ritmo Merolla si è guadagnato nel tempo la stima di personaggi come Tullio De Piscopo, James Senese, Pino Daniele, Edoardo Bennato e soprattutto di Enzo Gragnaniello con il quale ha a lungo collaborato. Tutti protagonisti del mio Napule’s Power, movimento musicale di cui oggi Ciccio Merolla entra a far parte, anche se di generazione successiva. Compositore e leader di formazioni funky, rock, di musica popolare, Ciccio è stato antesignano del rap napoletano, del reggae e di tanta musica afro mediterranea che dal dopoguerra si produce , si suona, si scambia e si canta a Napoli».
Ciccio abbiamo ascoltato la traccia finale con un esplicito omaggio a Ali Khan, come le è venuta l’ispirazione?
È un brano che ascoltavo spesso, specialmente quando ero in giro a suonare con Enzo Gragnaniello. Mi piaceva cambiare le parole e seguire il ritmo di Mustt Mustt e per la realizzazione dell’album ho completato l’idea di un brano che ho chiamato ‘Mpasta. Sono andato a cercare le tradizioni del casatiello che ha un impasto particolare e che viene servito nelle festività pasquali. Avevo fatto la stessa operazione con Brava di Mina che avevo trasformato in Mostro.
Questo è un album dove il rap ancora appare, ma stavolta è «fuso» con altre musiche, specialmente quelle della tradizione mediterranea. A che punto siamo del percorso?
È un percorso in evoluzione, dove l’umorismo prende corpo per assegnare alla canzone un messaggio ancor più forte dell’incazzatura che avevo quando mi esprimevo con il rap. Ho approfondito il significato delle percussioni, quello che fanno in certe tribù africane che inventano un ritmo senza strumenti, con le mani e i piedi. Il percussionista che suona tutte le cose, un po’ come quei rumoristi che inventavano i suoni nei film, magari per riprodurre suoni delle foreste amazzoniche. Ecco io ho cercato di riprodurre il suono del vicolo, coi panni distesi che sbattono al vento e l’eco di una voce arriva da lontano. Un percussionista che cerca di produrre dei sogni, sogni e suoni, come un Jan Garbarek de noialtri.
Canzoni vere e proprie, con testi importanti, alcuni in dialetto napoletano, per questo si è fatto aiutare da un giovane rapper, ce lo presenta?
Ho coinvolto per i testi il grande PeppOh che rappresenta la scena hip hop e cantautorale, vi consiglio di seguire quello che fa, ripeto, io lo metto tra i più grandi di oggi. Poi con Piero de Asmundis alle tastiere e Andrea «Oluwong» Esposito alle macchine elettroniche abbiamo dato vita a un sound suonato in diretta, ci siamo «fusi» in tutti i sensi.
Questa passione per le percussioni da dove proviene?
Vengo dai quartieri spagnoli, sono cresciuto tra Mario Merola e Miles Davis. Una volta da piccolo stavo guardando il Festival di Sanremo dove c’era un’orchestra che suonava, ma la mia attenzione era tutta rivolta a un musicista che usava ogni tipo di percussione. Ebbi come una folgorazione: voglio fare quello. Qui a Napoli in Galleria c’era un negozio Ricordi e comprai un paio di bongos. Ho iniziato a suonarli seguendo le canzoni di Bob Marley. Poi mi chiamarono per partecipare al film Blues Metropolitano con Pino Daniele, facevo la parte del figlio di Peppe Lanzetta. Nell’occasione ho fatto conoscenza con Tullio De Piscopo che mi incoraggiò a continuare, c’era anche Rosario Jermano che si occupava di vestire di colori la musica con le percussioni. Fu lui a spronarmi a studiare per poter migliorare e perfezionarmi, è lui che mi ha insegnato a creare musica con le sole percussioni.