Ci sono cose che alle quali, in una vita intera, mai si penserebbe di dovere assistere. E non per fatti negativi. La vittoria ai mondiali di calcio del 2006 era una di queste, tanto arrivò inaspettata. E poi ci sono altre cose: gli idioti che incidono il loro nome sui muri di monumenti che, da millenni, mostrano la loro bellezza; chi – grandi e piccini – si fa selfie davanti alle carcasse di automobili sbriciolate in iincidenti o davanti alla macerie lasciate da un terremoto; i bulli, glo odiatori telematici e gli stalker seriali, tanto per citarne qualcuno.
Cose davanti alle quale e’ un senso di fastidio quello che ti coglie. Ma vedere Andrea Bocelli cantare sotto la direzione di un robot ha creato imbarazzo e non fastidio. Ha cantato a Pisa, nelle vesti del duca di Mantova, in occasione del Festival della robotica, quale che sia il significato di questo accostamento.
Le mosse che alla macchina sono state fatte eseguire ricordavano quelle di un maestro: la lentezza del gesto, la fluidità, la bacchetta che si muoveva lieve sopra la cosa (non avendo essa una testa, sopra cosa si muoveva la bacchetta?).
Il mondo corre, guai se non fosse così, ma non è cosa che può riguardare tutto di questo universo. Si potrebbe anche creare una macchina da lanciare a tutta velocità per farle superare il record del salto in lungo o quello del salto in alto. Sarebbero record di macchine, ma a chi giovano prestazioni del genere?
Fare dirigere un’orchestra ad un pur sapiente insieme di microchip ed altre cose del genere (confesso, la mia ignoranza mi impedisce di andare oltre nella descrizione) è violentare lo spirito stesso della musica. E dispiace vedere che ad un simile ”esperimento” – non trovo altro termine per definirlo se non accostandolo alle spericolate iniziative del doktor Frankestein – si sia prestato un artista come Andrea Bocelli, disponibile verso tutto quello che gli ispira curiosità, ma che forse, in questo caso, avrebbe dovuto declinare l’invito, anche per la sua condizione che non gli consente di seguire un maestro, in carne e ossa o fili, alluminio ed elettricità.
La cosa più dolorosa, per chi ama la musica in (quasi) tutte le sue espressioni, era il volto stranito dell’orchestra. I maestri, per abitudine, guadavano verso il luogo deputato ad ospitare il maestro e si trovavamo davanti un coso bianco – con il marchio di chi l’ha realizzato bene in vista: tutto il mondo e è paese – con una bacchetta serrata in uno strumento che fungeva da mano. Ed il contatto con gli occhi del maestro? lo sguardo di plauso per la dolcezza di un attacco o il sopracciglio alzato per sottolineare una entrata non perfetta?
Ecco. Puoi anche mettere una macchina laddove ci dovrebbe essere un uomo. Ma spero di non vedere mai il giorno in cui una macchina dovrà dirmi quali sentimenti posso nutrire.