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Quella volta che registrai con Pino Daniele Napule è

Era il 1977, suonare con Pino Daniele fu per me una sorpresa e un'emozione. Oggi penso che quel disco fu un miracolo di equilibrio e dolcezza. [Piero Montanari]

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5 Gennaio 2016 - 13.12


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di Piero Montanari

È già passato un anno dalla drammatica notizia della morte di Pino. Si sapeva che era molto malato da tempo, ma non immaginavamo se ne andasse così, senza un filo di preavviso per farci assorbire meglio la brutta botta, anche se avevamo capito che la sua malattia era diventata il suo maledetto count down. Se n’è andato con la discrezione e lo stile che ha caratterizzato tutta la sua esistenza, da grande musicista e da grande uomo.

Era un ragazzo poco più che ventenne invece quando lo incontrai la prima volta, quel giorno di luglio del 1977 allo studio di registrazione Quattrouno di Claudio Mattone. In quel momento mi chiamavano spesso a suonare nei dischi come ‘session man’ e all’epoca facevo anche parte del trio jazz di Amedeo Tommasi con Roberto Spizzichino alla batteria, e tutti e tre eravamo insegnanti alla scuola St. Louis di Roma per i nostri rispettivi strumenti.

Claudio Poggi, il produttore di Terra mia di Pino, ci chiamò in blocco per registrare questo disco, che aveva avuto già una prima stesura con altri musicisti dell’area napoletana i quali, in quel momento, costituivano l’avanguardia assoluta della musica italiana. Basti pensare a De Piscopo, James Senese, Joe Amoruso, Gigi De Rienzo, Rino Zurzolo, Vitolo, Jermano, Avitabile, tutti grandi strumentisti e con dentro una forza musicale straordinariamente ribelle che solo Napoli aveva e poteva dare ai suoi figli.

Pino si presentò con una chitarra acustica in una mano e l’altra tesa verso di me: “Piacere Pino” mi disse, con la sua aria impacciata e quella voce strana e un po’ afona, e pensai subito: “Chissà come farà a cantare con questa voce…”. Amedeo ci diede delle partiture che aveva scritto con gli accordi del brano. Ci mettemmo ai rispettivi posti e indossammo le cuffie, attaccai il mio Fender Precision all’amplificatore e cominciai a provare il basso. Tommasi prese posto al piano elettrico Yamaha e provava gli accordi di Napule è, mentre Spizzichino iniziava a fare i suoni della batteria attraverso la sapienza professionale del fonico Franco Finetti in regia. Pino, finiti i check dei nostri strumenti, prese la sua chitarra classica ed iniziò a provare il brano. “Questo qui suona bene, senti che tocco e che begli accordi mette” pensai, mentre si snodavano tra le sue dita Do 7 + e Fa 7 + che costituivano l’inizio del brano.

Ma quando incominciò a cantare Napule è fu per me una sorpresa e un’emozione fortissima. La voce afona di Pino si trasformò in un canto ricco di pathos e di melismi blues, una cosa che non avevo ancora mai sentito, se non parzialmente da James Senese di “Campagna” con Napoli Centrale. Dentro il suo canto c’era di tutto: la Napoli classica, il blues delle radici, B.B.King, e chissà quali altre straordinarie cose che il cuore di quel ragazzone del quartiere Porto si portava dentro e comunicava con la sua musica.

Continuammo quelle sedute d’incisione che collimarono con un altro pezzo divertentissimo e pieno di swing, Tazzulella ‘e cafè, che Pino suonò con una Gibson Les Paul attaccata ad un effetto tipo wah-wah- che comandava con un tubo dalla bocca. Questo brano divenne poi il suo primo grande successo, anche perché Arbore e Boncompagni, ad Alto Gradimento, iniziarono a trasmetterlo senza sosta.

La registrazione di Napule è venne fuori una bellissima cosa, con tutta quella carica emotiva che Pino ci aveva infuso durante la registrazione del brano. Ancora oggi, risentendolo, mi sembra un miracolo di equilibrio, di dolcezza, di sentimento. Aver potuto partecipare a questo miracolo, poi, è stata una delle fortune della mia vita, e ancora oggi sono pieno di gratitudine per essere stato lì, quel giorno di luglio di quarant’anni fa a suonarlo con Pino.

Questa la fantastica versione in cui suona l’autore del pezzo, Piero Montanari.

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