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I Canti Orfici di Dino Campana

Cent'anni lunghi un giorno, omaggio a Dino Campana

I Canti Orfici di Dino Campana
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3 Dicembre 2014 - 08.56


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Ce ne parla Gavino Angius.

I Canti Orfici di Dino Campana a cent’anni dalla prima pubblicazione. Un autore e un’opera unici nel panorama letterario italiano, e non soltanto per il fatto che Campana sia stato, per le note vicende biografiche, autore d’un solo libro.

Un poeta dalla parabola esistenziale irrequieta, e un libro magmatico. Così che, a un secolo di distanza, non sono ancora chiare del tutto le vicende biografiche dell’uomo, né è pacifico il giudizio critico sulla sua opera.
Nato a Marradi nel 1885, Campana, alla data degli Orfici aveva accumulato un curriculum del tutto anomalo rispetto a quello del medio letterato italiano. Intelligenza vivace, studi regolari ma disordinati, vari tentativi di studiare chimica all’università, alternati da episodi di violenza contro persone e cose, che fin dall’adolescenza gli avevano fruttato il ricorso ai pochi rimedi allora noti in simili casi: il ricovero in manicomio, quando non l’arresto e la detenzione.

Viaggi attraverso l’Italia, in Francia, in Svizzera, a piedi, sulle orme di Rimbaud. Un soggiorno in Argentina, durato forse due anni, attraverso la pampa, con un rocambolesco ritorno in Europa attraverso la Russia, l’Europa Orientale, in Mare del Nord e il Belgio, esercitando i mestieri più strani: pompiere, poliziotto, suonatore di triangolo in una banda musicale, venditore di stelle filanti in un circo equestre. Vedendo, ascoltando, annotando, mettendo insieme una visione del mondo e degli uomini caleidoscopica, musicale e colorita, accelerata e- non occorre dirlo – folle.

Che piaccia o no, l’elemento biografico , in Campana, fa tutt’uno con l’opera, anche grazie alla leggenda che Campana stesso ha contribuito ad alimentare con le sue versioni, a volte discordanti, altre volte troppo realistiche per essere credute, delle sue avventure.

Così, è leggendaria la nascita del libro. In una gelida mattina dell’inverno 1913, a Firenze, uno strano figuro si presenta ad Ardengo Soffici e Giuseppe Prezzolini, due degl’intellettuali più europei dell’Italia di allora, animatori di un’autorevole e influente rivista culturale: Lacerba. Il visitatore, nella descrizione di Soffici, è un giovanotto erculeo, con folte chiome e barba rossicci. Con quel freddo, indossa una striminzita giacchetta da contadino, pantaloni di mussola azzurri a fiorellini gialli, un cappello troppo stretto per la sua testa leonina, che assomiglia a un pentolino rovesciato, e scarpe scalcagnate. Ha con sé il manoscritto d’un libro, rinchiuso dentro un taccuino bisunto. Lo consegna a Soffici, proponendo ne la pubblicazione.

Il manoscritto, dal titolo Il più lungo giorno, piace a Soffici, così come gli piace lo sconosciuto e timidissimo Campana. Ma il diavolo ci mette la coda, e Soffici, durante un trasloco, smarrisce il manoscritto. Campana, esacerbato, sprofonda nella più nera melanconia, dopo solleciti e ricerche, compie uno sforzo sovrumano e ricostruisce il libro, basandosi sugli appunti preparatori e, soprattutto, sulla propria memoria. Altra versione del libro, e soprattutto, altro titolo: Canti Orfici uscirà nel 1914, alla vigilia della guerra mondiale, stampato sommariamente da un piccolo tipografo locale, a spese dell’autore.

Campana sosterrà di aver ricevuto un rifiuto da Soffici. La storia smentirà la sua memoria vacillante: il manoscritto originale riemergerà dal gigantesco archivio del pittore-poeta toscano nel 1971, per la gioia di poeti, studiosi e ammiratori.
Il libro, anche nell’aspetto tipografico, assomiglia a Campana: stampato su carta di tre tipi diversi, con una copertina di giallognola che lo fa assomigliare a un pacchetto di macelleria, come argutamente lo descrive Giovanni Boine, uno dei critici più avvertiti della generazione di Campana.

Il testo è modernissimo e antiquato, misto di prosa poetica e di versi martellanti, di ambientazioni e personaggi estremamente domestici – Faenza, la Verna, barboni e prostitute fiorentini e genovesi – ed esotici – la Spagna e l’Oceano, Montevideo, zingari e russi. Un insieme affascinante e discorde, che attrae o che respinge, ma che non lascia indifferente il lettore.

Già, perché a dispetto di tutto, il libro non passa inosservato, anzi, accoglie consensi, da quelli di recensori severi come lo stesso Boine, come Cecchi, e, più tardi, Ungaretti e Montale, a un vero innamoramento da parte di una figura allora notissima e controversa come Sibilla Aleramo. S’innamora prima del libro, Sibilla, insiste per conoscere l’autore, e, inutile dirlo, s’innamora follemente anche di lui, aggiungendo Campana alla famosa, o famigerata, lista dei propri amanti, che negli anni conterà Giovanni Cena, lo stesso Boine, Cardarelli, Julius Evola, Quasimodo e Matacotta.

Il rapporto, torrido e altalenante, si consuma nell’arco di pochi mesi, avvelenato dagli scoppi di violenza e dalla follia crescente di Dino. Non è raro vedere Sibilla con un occhio pesto. I due si scrivono, un’infinità di lettere, cartoline, biglietti, che danno vita a un epistolario fitto e prezioso. Ma la parabola di Campana, che ha toccato il suo culmine, volge fatalmente al declino.

L’aveva profetizzato lui stesso, in una lettera a Sibilla Aleramo: finita la guerra, finirà Campana.

Fortuna o disgrazia, il suo medico curante, Pariani, coltiva teorie moderne, è uno specialista dei rapporti fra genio e follia, ha perfino scritto libri sull’argomento. Interroga pazientemente Dino, e ci lascia la sua prima biografia, anch’essa preziosa per conoscere l’uomo e l’opera. Di suo, durante gli anni di reclusione in manicomio, Dino scriverà solo poche lettere e appunti, commentando amaramente che nel panorama letterario ed editoriale italiano non c’è spazio per uno come lui.

Seguiranno, lungo un secolo, altre pubblicazioni più o meno filologicamente curate dei Canti Orfici, le ricerche biografiche, l’assurgere di Campana a personaggio iconico, propiziata da un fortunato romanzo biografico di Vassalli, La notte della cometa, e da ben quattro film, fra i quali l’altrettanto fortunato Un viaggio chiamato amore per la regia di Michele Placido.

La leggenda di Campana continua, ancora intrecciata di fabulazioni e verità. Continua in quel filone della poesia italiana del ‘900 che si conviene chiamare “orfico” (con l’appendice “neo-orfica” sorta negli anni ’80 del secolo scorso, e ancora viva.)

Continua con studi, ricerche, celebrazioni. Fino alla serata, organizzata dall’Associazione Spazio Libero presso L’Opoz Caffè di Cagliari, per raccontare un libro, un uomo, un secolo, bruciati nell’arco fiammeggiante del più lungo giorno.

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