Giovanni Troilo: ecco perché mi hanno tolto il premio World Press Photo‏ | Giornale dello Spettacolo
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Giovanni Troilo: ecco perché mi hanno tolto il premio World Press Photo‏

Intervista al fotografo a cui è stato ritirato, per un vizio di forma, il primo premio dopo le proteste del sindaco di Charleroi, la cittadina al centro del reportage.

Giovanni Troilo: ecco perché mi hanno tolto il premio World Press Photo‏
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10 Marzo 2015 - 22.27


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di Davide Monastra

Sono passati diversi giorni, ma non si sono ancora placate le discussioni (e le polemiche) intorno al fotografo italiano Giovanni Troilo e al suo reportage su Charleroi dal titolo “Il cuore nero d’Europa”. L’iniziale vittoria al World Press Photo è stata revocata e i 10 scatti squalificati, dopo la protesta del sindaco della cittadina belga, che ha subito contestato un errore in una didascalia. “Il motivo formale per cui mi hanno ritirato il premio – ha spiegato Troilo – è che c’è l’indicazione di un luogo che non è esattamente quello della fotografia. La mia unica perplessità è che in passato questioni di questo tipo si sono risolte tranquillamente con una correzione di una didascalia e il premio è stato consegnato a chi lo aveva conquistato. Nel mio caso evidentemente non è andata così”.

Poco favorevole alle luci della ribalta, Troilo, giustamente deluso per essersi visto togliere il premio dalle mani, ha aggiunto: “Il provvedimento è formalmente ineccepibile, ma si scontra con delle decisioni prese in passato dal World Press Photo che hanno avuto esiti differenti. Il mio lavoro è stato vivisezionato. Ho dato tutte le spiegazioni possibili e per settimane ho mantenuto il silenzio stampa, per non avere interferenze. Sicuramente – ha continuato – mi aspettavo di dover commentare il progetto, ma di parlare di altro. Il problema è che non si è mai arrivato a parlare di quest’altro e si è discusso solo di questioni piccole e futili”.

Allora, non hai ancora digerito questo amaro boccone?

Non si tratta di digerire. È un fatto, punto. Non fa piacere, ma… va bene così.

Perché pensi ti abbiano ritirato il premio?

Il perché è semplice. Mi avvalgo di linguaggi che non sono abituali per il giornalismo più classico. Io ho parlato in questi giorni con dei fotografi di guerra che hanno contestato il modo in cui ho scattato le mie fotografie. Però io ho spiegato che non sto raccontando una guerra, io non sto raccontando un momento irripetibile davanti ai miei occhi. Ma sto facendo un ragionamento: sono 15 anni che la stampa racconta Charleroi come un posto con enormi problemi. Il mio lavoro non è sui problemi di Charleroi questo: io voglio far notare che questo posto è in linea d’aria a solo a 40 chilometri dal cuore dell’Europa. E quindi in qualche modo, Charleroi, può essere una metafora per parlare d’Europa, per parlare delle problematiche più gravi che in questo momento la interessano. Ci sono tante Charleroi in giro per l’Europa.

Il tuo lavoro però sta facendo discutere e sta avendo tantissima visibilità, forse più di quanta ne avrebbe avuto soltanto vincendo il World Press Photo.

Io non ho ancora un punto di vista distaccato. Se un giorno riuscirò ad averlo, spero non troppo in là, probabilmente potrei dire che in un certo senso quello che accade è un po’ una sublimazione del mio lavoro: i vizi eccepiti per il premio ritirato sono di natura formale, ma andando alla sostanza si scopre che si fa fatica a raccontare se stessi, si fa fatica a raccontare dei difetti che si hanno e spesso è più comodo importare le storie da fuori, dal altre zone, dal terzo mondo. Del resto tutto nasce dalla protesta del sindaco di Charleroi.

A proposito del sindaco di Charleroi: ha mai provato a contattarti?

Non mi ha mai contattato. È intervenuto nella vicenda senza chiedermi né chiarimenti né nulla. Io quello che vorrei dirgli è che il suo atto di ribellione è legittimo perché stiamo parlando della città che amministra, che ha tra l’altro enormi problemi di vari tipologie, criminalità, disoccupazione, tracollo dell’industria, corruzione della classe politica: lui ha tutto l’interesse a cercare di ripulire questa immagine e non gli può far piacere un lavoro che parli di questo. Peccato che come ho scritto nella descrizione data al Word Press Photo non è quella la vera natura del mio progetto: io non ho fatto un’inchiesta su Charleroi. Sarebbe stato un po’ fuori tempo massimo, sarebbe stata una non-notizia. È dal 2001 che si parla sui quotidiani di tutto il mondo dei problemi di Charleroi. Quindi la notizia non è lì, il senso del lavoro è questa metafora del “cuore nero” dell’Europa. Probabilmente se il messaggio corretto fosse arrivato anche al sindaco, avrebbe reagito in un modo diverso. È bene che il sindaco si ribelli, ma i sindaci facciano i sindaci e la libera espressione sia garantita.

Pensi che sia stata limitata la tua libertà d’espressione?

Il ritiro del premio, può prestarsi in questi giorni, soprattutto in Belgio, ad una sorta di strumentalizzazione politica. La fotografia di cui hanno contestato la didascalia è quella del pittore, proprio quella in cui il luogo ha un ruolo più marginale. Per quanto mi riguarda avrei potuto scattarla anche sulla Luna. È una sorta di un meta linguaggio, perché uso il lavoro di un pittore per farlo diventare una foto che parla d’altro ancora.

Oltre ai vizi di forma, che cos’altro ti hanno contestato?

Una delle considerazioni che il sindaco di Charleroi ha fatto e che ha suscitato la mia ilarità è che non si può realizzare un servizio fotografico in una sola settimana. Posto che la maggior parte dei servizi assegnati, per ragioni di costi, è realizzata anche in meno di una settimana, io per questo lavoro su Charleroi ho impiegato un anno intero di lavoro e un progetto che ho sviluppato nel corso di quattro anni e parlo di un luogo che conosco bene. La mia famiglia si è trasferita lì negli anni ’50, io sono la terza generazione. Io con i miei occhi in prima persona ho visto il cambiamento di Charleroi.

C’è qualcosa che hai imparato da questa vicenda?

Una cosa di cui sono “contento” è che in qualche modo questo lavoro inviti a discutere sull’evoluzione del linguaggio fotogiornalistico. Oggi un fotografo mi ha precisato che per il World Press Photo, i ritratti ammissibili sono quelli in cui il soggetto guarda in macchina e questo mi sembra davvero limitante. La fotografia del signore obeso quindi non sarebbe quindi un ritratto ammissibile, perché potrebbe non essere chiaro per chi guarda che si tratti di ritratto, ma di una foto “rubata”. Secondo me dalla mia foto risulta immediatamente comprensibile per chiunque che si tratta di un ritratto, non ha certo l’aria di una foto “rubata” a casa sua. Anche questo tabù sull’uso del flash mi fa sorridere. Mi hanno chiesto: “Ma hai usato il flash?” Davvero non vedo la questione. Se questa è manipolazione dell’immagine allora lo è anche quella nelle migliaia di fotografie in bianco e nero con contrasti marcatissimi e con tecniche di evidenziazione in camera oscura. Saremmo alla paleofotografia.

Quindi il World Press Photo dovrebbe ridiscutere le sue regole?

Probabilmente sarebbe utile. Si parlava anche di organizzare nei giorni del World Press Photo una tavola rotonda per parlare della possibilità di introdurre una categoria specifica in cui contemplare tutti i nuovi linguaggi. Vedremo.

Nel tuo futuro invece, che cosa c’è?

Il lavoro diventerà una mostra fotografica a Cortona con una selezione estesa di immagini, perché ho prodotto tantissime immagini. Vorrei anche pubblicare un libro. Poi soprattutto voglio continuare a raccontare questo Continente perché è evidente anche da quello che è successo che debba essere raccontato. È un Continente che sta cambiando velocemente e che dovrà compiere delle scelte fondamentali. È un Continente che poi si presta alla narrazione. Ci sono dei luoghi piuttosto peculiari dove questi cambiamenti si rendono più manifesti e mi concentrerò a raccontare questi posti.

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